“Se le migrazioni verranno permesse, ci saranno conseguenze positive. Tutto nella natura dipende dal movimento, e se si pensa ai luoghi caratterizzati dalle migrazioni, come New York o Londra, o perfino Alessandria d’Egitto in passato, si comprende come abbiano favorito l’umanità”, racconta a ilLibraio.it Omar Robert Hamilton, autore anglo-egiziano in libreria con “La città vince sempre”, in cui racconta gli eventi di Piazza Tahrir. Lo scrittore non ha dubbi sul futuro del suo paese: “Non è verosimile che l’Egitto trovi una soluzione ‘nazionale’, perché il potere dello stato dipende da un sistema economico definito dalle relazioni con altre nazioni”. Inoltre, consiglia una serie di letture sulla primavera araba e…

Un romanzo può raccontare gli avvenimenti che hanno avuto luogo in una piazza? Il filmmaker e scrittore Omar Robert Hamilton lo ha fatto con La città vince sempre (Guanda, traduzione di M. Milan), in cui ripercorre gli eventi di Piazza Tahrir attraverso lo sguardo lucido di chi ha preso parte alla rivoluzione.

Lo scrittore anglo-egiziano ha seguito gli eventi cruciali della rivoluzione araba nel paese materno con lo scopo di girare un documentario che però si è trasformato in un romanzo, dove gli eventi storici e politici si sono uniti ad aspetti di fiction.

I protagonisti principali, Khalil e Marian, infatti, sono frutto della penna dell’autore. Anche se non mancano le somiglianze tra il protagonista e Hamilton: entrambi si trovano per nascita a cavallo tra Oriente e Occidente e hanno un legame con la Palestina. Oltre all’attivismo e all’interesse per la divulgazione degli avvenimenti che hanno avuto luogo in Egitto.

Una scelta non scontata quella di inserire Marian, la controparte femminile, ma fondamentale per raccontare davvero ogni spetto della rivoluzione, in cui l’abuso sessuale è all’ordine del giorno, favorito dal clima di violenza generale.

ilLibraio.it ha incontrato Omar Robert Hamilton in occasione di BookCity Milano.

Perché ha deciso di scrivere un libro sugli eventi di Piazza Tahrir?
“Ho sentito una sorta di responsabilità, ero lì quando sono successi gli eventi, tra il 2011 e il 2014. Lavoravo come filmmaker e ho ripreso molti dei momenti più importanti. Quando le cose hanno iniziato a mettersi male, ho sentito la necessità di raccontare quello che avevo visto. All’inizio pensavo di fare un film, ma ben presto quello che scrivevo come sceneggiatura per il documentario ha preso la forma di un libro”.

La scrittura del romanzo quanto è stata influenzata dal cinema?
“Molto, anche se a primo acchito sembra che la scrittura sia il contrario del cinema. Nella letteratura si è soli con la propria mente: scrivere dopo l’esperienza delle riprese è stato liberatorio. Però, ripensando ad alcune delle scene nel romanzo, mi tornano in mente momenti che ho ripreso”.

Lei e Khalil – il protagonista del romanzo – condividete la duplice nazionalità. Cosa significa appartenere a più culture?
“Sono cresciuto così, parte di diverse culture. Ormai anche di quella palestinese, visto che ci ho lavorato dieci anni. Mi sembra naturale vedere attraverso una prospettiva più globale, soprattutto al giorno d’oggi. In questi anni stiamo andando verso un mondo fatto di persone che si mischiano, anche se alcuni movimenti politici vorrebbero fermarlo. Come è già successo in Egitto, il nazionalismo insorge con la repressione politica”.

La preoccupa il futuro, visto il potere che stanno acquisendo i movimenti nazionalisti?
“Tutti dovrebbero preoccuparsene, anche perché non si sta agendo per risolvere le motivazioni che stanno facendo sorgere questi movimenti. Il futuro appare buio perché non stiamo imparando la lezione, siamo più interessati agli aspetti economici della globalizzazione che a quelli sociali”.

E come vede il futuro dell’Egitto?
“Il futuro dell’Egitto è legato a quello dell’Europa e del resto del mondo. Non è verosimile che l’Egitto trovi una soluzione ‘nazionale’, perché il potere dello stato dipende da un sistema economico definito dalle relazioni con altre nazioni, tra cui l’Italia e gli Stati Uniti. Anche se si dovesse raggiungere la democrazia, resterebbe il problema internazionale. Per questo motivo, oggi non c’è differenza tra i problemi di uno stato e quelli globali. Ormai i governi nazionali non sono gli attori più potenti, quelli che decidono come andranno le cose sono le multinazionali e le forze militari”.

Parlando di situazioni globali, come si risolverà l’emergenza migranti che interessa gran parte del mondo?
“Se le migrazioni verranno permesse, ci saranno conseguenze positive. Tutto nella natura dipende dal movimento e se si pensa ai luoghi caratterizzati dalle migrazioni, come New York o Londra o perfino Alessandria d’Egitto in passato, si comprende come abbiano favorito l’umanità. Una nuova ed eccitante era globale potrebbe essere alle porte”.

Un aspetto interessante che emerge dal romanzo è l’insorgere di movimenti femministi durante la rivoluzione. C’è stato un legame tra rivoluzione e attenzione per i diritti delle donne?
“In Egitto la violenza sessuale è un grave problema, che però si inserisce in un sistema globale caratterizzato dal patriarcato. Della rivoluzione il femminismo è forse l’unica battaglia che è rimasta. Tuttavia il problema, per quanto nazionale, verrà risolto solo quando in tutto il mondo le cose cambieranno per le donne”.

Ci sono libri che si sente di consigliare a chi è interessato a capire la cosiddetta “primavera araba”?
“Mi sento di consigliare delle opere di non fiction: i libri di Jack Shenker, che è stato il corrispondente del Guardian in Egitto durante la rivoluzione, e Burning Country di Robin Yassin-Kassab, a mio avviso il migliore racconto della Siria, che ripercorre una cronologia dei fatti accaduti. Presto arriveranno in libreria in inglese anche un ulteriore resoconto dalla Siria e un saggio sulle molestie sessuali durante la rivoluzione in Egitto”.

 

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