di Gaia De Pascale

Perché lo fanno? Chiunque non sia stato contaminato dal “virus” della corsa deve essersi fatto almeno una volta questa domanda. È normale chiedersi il perché, quando si vedono strade, marciapiedi e parchi cittadini invasi da persone che corrono, in qualunque forma fisica, a ogni ora del giorno, con qualsiasi condizione climatica. Corrono davvero tutti. La running-dipendenza si espande con la forza di una pandemia, lasciando quelli che non ne sono contagiati alla finestra a guardare, un po’ divertiti e un po’ preoccupati, con la testa attraversata da un solo, enorme interrogativo: perché?
Le risposte sono tante quante i corridori, professionisti e non, che ogni giorno si mettono alla prova. Si corre per dimenticare o per ricordare, per mantenere la forma fisica, per saggiare la propria resilienza. Si corre per superare un trauma, per elaborare un lutto. Si corre per inseguire uno scampolo di solitudine o per non sentirsi mai più soli. Si corre per arrivare primi o perché si sa che mai e poi mai si salirà sul podio, ma si sa anche che non sempre il risultato conta. Si corre per tagliare il traguardo, per non mollare, per dire, insieme ad altre migliaia di persone: “io c’ero”.
Corrono tutti e lo fanno da sempre: correvano gli dei e correvano gli antichi miti, correvano i nostri antenati ominidi così come i greci e i romani, corrono i filosofi e i poeti, corrono gli atleti ma anche i pazzi, i vecchi, i detenuti. Naturalmente, corrono i bambini.
Attraverso la storia della corsa si potrebbe tranquillamente tracciare la storia del mondo, e quel che ne verrebbe fuori è questa semplice verità: correre non è solo uno sport, è un modo di guardare alla vita e di imparare ad affrontarla al meglio della proprie possibilità. Correre è una filosofia e se in tanti continuano a farlo è soprattutto perché, tra mille motivi, uno prevale sempre sugli altri: correre è bello. Correre rende felici. Come dice l’ultramaratoneta Kilian Journet, nella corsa vince sempre “chi gode di più”.

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