A quasi sessant’anni dalla nascita dei Quaderni Piacentini, Piergiorgio Bellocchio è protagonista di un incontro, organizzato a Milano dalla Fondazione Feltrinelli, dedicato alle riviste politiche e culturali di ieri e di oggi. Intervistato da ilLibraio.it, parla del ruolo svolto dal “foglio di battaglia” da lui fondato (che ha visto tra i protagonisti Franco Fortini, Giovanni Raboni, Goffedo Fofi, Guido Viale e Giovanni Giudici). Il presente? “Sono sempre stato pessimista, ma non pensavo peggiorasse così: le cose sono andate peggio di quel temevo”

Sono passati quasi sessant’anni dalla nascita dei Quaderni Piacentini, “il foglio di battaglia” fondato nel 1962 a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio – classe 1931, scrittore, editor e giornalista – insieme a Grazia Cherchi (l’archivio è interamente consultabile in digitale sul sito della Biblioteca “Gino Bianco” di Forlì).

Il primo numero dei Quaderni usciva forma di ciclostilato autoprodotto in 250 copie, ma in brevissimo divenne uno dei punti di riferimento della nuova sinistra italiana, raggiungendo, nel corso di più di vent’anni di attività, anche tirature di 12mila copie. Fu uno dei luoghi, giusto per dirne una, dove venne anticipato, elaborato e anche – naturalmente – criticato il Sessantotto (lì fu pubblicato Contro l’università di Guido Viale, uno dei testi chiave dell’autunno caldo).

Ormai però è tempo di bilanci: sabato 13 aprile, la Fondazione Feltrinelli dedicherà un appuntamento alle riviste politiche e culturali, ai Quaderni e i suoi simili e a chi usa “l’indagine, lo sguardo critico, il confronto aperto per portare a emersione rimossi, per dare parola a soggetti esclusi, per proporre interpretazioni e immaginari alternativi a quelli egemoni.”

Ci sarà una tavola rotonda con alcune riviste contemporanee che reinterpretano la missione dei fogli di battaglia (Jacobin, Codici 404, Gli Asini, Lo stato della città, Scomodo) a cui seguirà la proiezione del documentario I Quaderni Piacentini di Eugenio Gazzola, che ricostruisce la loro storia, con la presenza di Piergiorgio Bellocchio che verrà introdotto da Marcello Flores.

 Bellocchio

“La rivista”, racconta Bellocchio a ilLibraio.it, “cadeva dove occorreva. Se ne sentiva il bisogno: era un periodo fervido politicamente, che noi forse abbiamo contribuito a infiammare”.

I Quaderni erano scritti da giovani e per giovani (“Si può e si deve essere seri senza essere noiosi. Con allegria”) per “sollecitarli a una maggiore presenza e partecipazione”, ma oggi ricordiamo proprio questi giovani (o, chi si accompagnò loro) come i protagonisti della cultura del Novecento; l’elenco dei collaboratori infatti fa impressione: Franco Fortini, Cesare Cases, Giovanni Raboni, Goffedo Fofi, Giovanni Giudici, Edoarda Masi per citarne solo alcuni.

Sono davvero alcuni dei nomi che incarnano lo spirito del tempo. Un tempo in cui, ricorda Bellocchio, “c’era un pullulare di riviste. Erano molte e molto schierate politicamente: i marxisti-leninisti, gli operaisti. Ma tutte convivevano, non è che una ammazzava l’altra. Noi ci siamo tenuti sempre a una certa distanza, che è stata la nostra salvezza. Avevamo – cita il ‘gruppo esecutivo’, formato oltre che da lui, da Grazia Cherchi e Goffredo Fofi – una cultura più letteraria che politica. E questo ci ha permesso di evitare certi vizi del politico, anche di quello buono”.  Era il momento storico propizio: “C’è stata una risposta piuttosto ampia e spontanea, senza che occorresse niente: non abbiamo mai speso una lira in pubblicità, la rivista si faceva pubblicità da sola. Arrivavano i contributi, arrivavano i collaboratori, arrivavano i lettori”. Certo, non significa fosse tutto facile, anzi. I Quaderni venivano autogestiti in tutto: dalla scrittura, alla distribuzione, alla stampa, alla gestione degli abbonati, per poter mantenere un’indipendenza di cui Bellocchio va ancora fiero, “perché se cominci a dipendere da qualcuno per i soldi, o dal partito, dalle correnti, è un problema, mentre l’autogestione è di per sé una garanzia”.

quaderni piacentini

Oggi la situazione per lui è molto diversa. Se c’è una cosa che questa indipendenza gli ha sempre permesso di fare, e che neanche i fastidi dell’età ammorbidiscono, è la libertà di non mandarle a dire: “Sono sempre stato pessimista, ma non pensavo peggiorasse così: le cose sono andate peggio di quel temevo. I tempi cambiano, cambia la società. Mi sembra che sia cambiata in peggio, sia livello politico sia culturale: tutto si tiene”. Bellocchio sostiene ci sia meno spazio, meno interlocutori, anche se non significa che manchino i tentativi, l’impegno, le esperienze più che meritorie – più volte segnala il lavoro di Una città, rivista di interviste, fondata a Forlì nel 1991.  È una questione di contesto, ma anche questa è una fase in cui nascono nuove esperienze e quelle esistenti acquisiscono rilevanza. Forse anche questo, proprio come nel 1962, è un momento in cui la loro attività cade dove se ne sente il bisogno.

quaderni piacentini

Ma come reinterpretare quella tradizione oggi, si chiede proprio alla Fondazione Feltrinelli chi continua a farlo nonostante le difficoltà oggettive, al tempo del web, delle fake news, della “semplificazione”. La rivista può essere ancora uno strumento valido per indagare il mondo? Può produrre una forma di conoscenza che permette di agire sulle cose? Insomma, può essere ancora rilevante? Può – come nel caso dei Quaderni Piacentini – essere una voce capace di articolare una diversa visione del presente? Di offrire soluzioni o alternative.

Ha ancora senso, per usare una formula cara a Bellocchio stare dalle parte del torto oggi? Proprio lui negli ultimi anni, come ricordava Alfonso Berardinelli – con cui fece una rivista a due mani, il Diario, negli anni Novanta –  che si è defilato sempre di più (“non appare, non compare”) e sarà anche pessimista sulla realtà circostante, non ha perso lo spirito del suo foglio e, infatti, un’idea ce l’ha: “Siamo immersi in un mondo che va avanti solo con quelle spinte lì: il denaro, guadagnare, e, certo, per me c’è da fare i conti con l’età, con un calo di interesse personale, ma dalla parte del torto bisogna starci per forza, insomma. Se tutto va in una certa direzione, bisogna negarsi, saper dire di no”.

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