“Una volta qualcuno mi ha detto: quando sei triste, tu prendi e comincia a camminare. E vedrai che quando avrai camminato abbastanza la tristezza sarà passata, o quantomeno si sarà indebolita”. Su iLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari ci porta a spasso per una delle zone più celebri di Roma, sfondo di tanti film: il quartiere Coppedè. “Io, in piazza Mincio ci entro come se entrassi davvero nella scena di un film. E mi rendo conto, ogni volta con la stessa sorpresa, che molto del fascino di questo quartiere sta nel fatto che rimane sempre uguale. Uguale a sé stesso, ma anche uguale a come compare nei film. I decenni, addirittura il secolo che Coppedè sta per compiere, sembrano averlo lasciato intatto, unica reliquia di un passato tutto di fantasia in una città che cambia stancamente, spesso in peggio, ma cambia tutta”

A spasso fuori dal tempo

Una volta qualcuno mi ha detto: quando sei triste, tu prendi e comincia a camminare. E vedrai che quando avrai camminato abbastanza da aver male ai piedi e la stanchezza nelle gambe, la tristezza sarà passata, o quantomeno si sarà indebolita. Era un consiglio saggio davvero, uno di quei consigli preziosi che non capitano spesso; così, quando sono triste io non piango, non bevo, non mi drogo e nemmeno mi lamento: io prendo, e comincio a camminare. Cammino anche quando non sono triste, beninteso, cammino pure quando sono estasiata, felicissima, allegra o così e così (stato intermedio che, devo dire, il mio umore attraversa solo di rado, e di sguincio, senza mai sostarci troppo a lungo, perché chiaramente anche il mio umore è un instancabile camminatore e troppo fermo non sa stare); non sempre – perché vivo in una città sterminata e trafficatissima e se mi affidassi alle mie sole gambe sarei costretta a un’ancor più crudele sindrome del Bianconiglio – ma appena posso permettermelo, allora cammino, con la frequenza appassionata che possiamo avere solo per le cose che ci piacciono davvero, e a me camminare piace, almeno quanto non mi piace calarmi nelle claustrofobiche profondità della metropolitana, o pietrificarmi in eterne attese di bus e tram. 

Cammino in ogni possibile stato d’animo, ma il fatto è che la magia che il camminare opera sulla tristezza non smetterà mai di affascinarmi. Tu cammini, e intanto pensi e rumini e rimugini, ma cammini, cammini e cammini, un passo dopo l’altro, un piede dietro l’altro, e magari inciampi, toh, fra le pietre sconnesse del selciato, i sampietrini, i marciapiedi irregolari e le strisce pedonali. Guardi in alto e vedi le stagioni che scorrono addosso agli alberi alti dei viali, dietro i cancelli dei giardini, vedi i balconi e i fiori, anche in città, perché le città sono piene di fiori e pattumiera, e alberi, erbacce e sporcizia che dappertutto crescono, prosperano, vivono. 

quartiere coppedè

E senti le persone che parlano, raccogli brandelli di conversazioni, rimani a meditarle, ti inventi il perché e il percome di quella mezza frase che hai sentito, e scivoli su una foglia bagnata, su un fiore fradicio che galleggia in una pozzanghera. E senti che tutto il mondo gira lo stesso, che della tua tristezza non importa proprio nulla a nessuno, ma finalmente, nella perfetta solitudine dei tuoi passi, questa non ti sembra più una notizia tragica, ma il segno che allora quella mastodontica tristezza non è poi tanto importante, ed ecco, si dissolve, come la neve al sole, si dissolve nell’indolorirsi dei muscoli, nella stanchezza della marcia, nella voce di un bambino di passaggio, nel baluginio del guinzaglio di un cane che ti viene a scodinzolare vicino. Gli alberi si son fatti verdi lo stesso, l’ombra si allunga nella sera, ti fanno male i piedi e all’improvviso non sai più se la tua tristezza era davvero – davvero? – tanto importante come ti sembrava prima. 

Gli unici effetti collaterali di questo metodo sono la smisurata perdita di tempo e lo stato pietoso in cui versano le scarpe del camminatore. Ma la lentezza è indispensabile al camminare – e il tempo perso non esiste, poi, o quantomeno, non possiamo esser tanto arroganti da pretendere di distinguerlo noi, no?

 

E le scarpe mangiucchiate dalla strada, anche quelle sono una parte importante, fondamentale dell’incantesimo del camminare. Come in quelle fiabe russe in cui ogni impresa si basava sulla consunzione completa e progressiva di diverse paia di calzature. I segni della strada sulle scarpe, i tacchi consumati, le suole a brandelli, sono la gioia del mio calzolaio, Johnny (si chiama proprio così) e il segno della tenacia della mia passione.

Non sono una camminatrice sportiva io, sono una camminatrice di città. Una flâneuse, se mi passate il termine – so che può sembrare pretenzioso, ma non ne trovo uno migliore. È per questo che, in apparente contraddizione con il mio amore sfrenato e panteista per la natura, io ho bisogno di vivere in città, possibilmente in città grandi. In città, la passeggiata protratta perde il suo aspetto salutare-sportivo, conservandone solo quel tanto che basta, e si fa più contemplativa, distratta, più svagata e sorniona. Due cose prediligo, in particolare, delle camminate cittadine che mi guariscono dalle tristezze più tetre. La prima, è seguire i cani. Non i padroni, badate bene, anche se spesso sono loro a reggere il guinzaglio: ma i cani, in particolare quelli tozzetti, in formato botticella, quelli che annusano a terra e sanno benissimo dove andare, e si tirano dietro guinzaglio e padrone, e fiutano, annusano, e fanno altre cose da cani. La seconda è guardare i palazzi, immaginarmi altre vite impossibili in altre case, in altre piazze, in altre strade.

quartiere coppedè

È uno sforzo dell’immaginazione completamente inutile, tutto fine a se stesso, magnifico. Siamo certo in tanti a esercitarlo: quello che l’ha saputo raccontare meglio di tutti è stato nientemeno che Baudelaire nello Spleen di Parigi – del resto, si tratta di un’attività essenziale per un flâneur. Oltretutto, queste scorribande della fantasia in cammino si combinano benissimo con l’osservazione dei cani, perché capita spesso di vederli scomparire dietro le sbarre di un cancello, inghiottiti dalle ombre di un giardino o di un androne; la codina tesa sparisce al chiudersi della porta, e al di là della porta c’è la vita segreta di quel cagnolino in formato botticella: stanze, pavimenti, gradini e tappeti, la vita quotidiana dei suoi padroni, tutto un mondo da cui sentirsi esclusi è doloroso e bellissimo, come il vero flâneur sa bene. Bellissimo, perché ormai, a furia di camminare e indugiare con l’immaginazione oltre i confini dei portoni, dei cancelli e dei recinti, la tua tristezza si è misteriosamente dissolta, e non rimangono che i passi, i cancelli, le pozzanghere e i cani, e ti pare di poter dire che è comunque abbastanza. 

C’è un posto in cui i miei passi mi trasportano spesso – e non solo perché il caso ha voluto, per una serie di coincidenze concatenate in modo da sembrare tutto fuorché casuali, che io finissi ad abitare non troppo lontano di lì. È abbastanza vicino alla casa in cui vivo da permettermi di entrarci ogni volta che voglio, e abbastanza lontano da consentirmi di sfumare, strada facendo, ogni tristezza nel ticchettio dei tacchi; ma ad attirarmi così è soprattutto il fatto che è un luogo magico. Non somiglia a nessun altro se non a un’arzigogolata fantasticheria da illustrazione di libro di fiabe, ed è del tutto sospeso nel tempo – anzi, è incastonato in uno strano passato fantastico e fittizio, una specie di controsenso temporale forte come un incantesimo. Inoltre pullula di cani di ogni formato e sfumatura, perché è pieno di giardini segreti e cancelli che si chiudono su codine vibranti, di ombre e di fontane. Lì, mi immagino impossibili vite non mie con un gusto particolare: perché anche se non sono mai entrata, sui miei piedi, in nessuno di quei palazzi che indugio a osservare, è come se ci fossi stata già, e più di una volta, ospite segreta e invisibile ai padroni di casa.

quartiere coppedè

Forse ci siete stati anche voi, e magari nemmeno lo sapete: basta che abbiate visto un film ormai classico diretto da Richard Donner nel 1976, The Omen – Il presagio, magnifico horror demoniaco in cui un distinto diplomatico in missione a Roma – interpretato da Gregory Peck – nelle scene iniziali, insieme alla moglie e al figlioletto scambiato in culla (che in realtà è un bimbo un po’ particolare, essendo l’Anticristo), abita un appartamento proprio in uno dei palazzi che compongono questo misterioso angolo magico. 

È il quartiere Coppedè, che anche se si chiama così non è propriamente un quartiere, ma un cantuccio in cui Roma sembra misteriosamente scomparire e accartocciarsi tutta in un arzigogolato castello di sabbia, una folle stravaganza in cui le linee dei palazzi paiono disegnate da un illustratore capriccioso sulla pagina di un libro fantastico, e invece sono incredibilmente reali. A Coppedè non ci si arriva, ma ci si entra: perché questo assurdo gruppetto di diciotto palazzi e ventisette villini ha un ingresso vero e proprio, un arco gigantesco da cui pende un enorme lampadario di ferro battuto, ed è come salire sul palco di un teatro, lasciarsi alle spalle il traffico e il fragore, il Piper Club lì a due passi con la sua insegna a lettere rosse anni ‘60 e il dolce senso di edonismo un po’ appassito, e ritrovarsi circondati da una scenografia sognante e fiorita in cui – come al cinema, come a teatro – il tempo esiste ma non è reale, e oggi non è più oggi, ma un altro giorno, un giorno inventato che si potrà ripetere un’infinità di volte, tutte le volte almeno che riguarderemo quel film, che si alzerà il sipario, o che varcheremo l’ingresso sotto il grande lampadario sospeso per scoprirci minuscoli come in un museo di dinosauri, fra i grandi palazzi di travertino, porosi e ruvidi come conchiglie, con i loro festoni, i bassorilievi, i leoni, le sfingi e i ragni, i motti in latino, i lampioncini di ferro battuto, i bovindi e le finestre dietro cui sembra insieme incredibile e meraviglioso che qualcuno abiti davvero. E dentro un film, anzi, dentro tantissimi film, ci siamo veramente, quando entriamo a Coppedè. 

quartiere Coppedè

Gino Coppedè, l’architetto visionario che cominciò a disegnare il quartiere nel 1915, oltre a regalargli il suo stesso cognome – rotondo e sinuoso, accentato e sfacciatamente eclettico pure quello, proprio come le linee del suo progetto – lo fece mescolando omaggi alla Roma imperiale (come l’uso del travertino), e a un fittizio passato reinventato di sana pianta da fantasticherie preraffaellite, che si proiettano sui meravigliosi Villini delle Fate sotto forma di leoni di Venezia, bifore e trifore, loggette e meridiane, Fiorenza bella scandito a gran lettere accanto ai ritratti di Dante e di Petrarca. Ma la trovata che mi pare la più geniale di tutte è quella di decorare il palazzo di piazza Mincio su cui, passato il grande arco degli Ambasciatori, cade immediatamente lo sguardo del passante abbacinato (il palazzo in cui, per inciso, abiterà la famigliola diabolica di The Omen) con un incredibile arco bicolore: riproduzione perfetta della scenografia di un film che, solo poco prima che si avviasse il progetto, nel 1914, aveva conosciuto un successo strepitoso, e rimane una pietra miliare della storia del cinema: Cabiria, grandioso kolossal punico e muto di Giovanni Pastrone, le cui didascalie le scrisse nientepopodimeno che Gabriele D’Annunzio.

Sopra un altro palazzo, il Palazzo del Ragno, decorato da un gigantesco aracnide tutto preso a tessere la sua tela piuttosto art déco, Coppedè, che fu, pare, un gran massone e disseminò il quartiere di simboli esoterici (ricercati e decifrati da appassionati visitatori come in una gigantesca caccia al tesoro), ci incise il suo motto: “Artis praecepta recentis / maiorum exempla extendo” (“rappresento i precetti dell’arte moderna attraverso gli esempi degli antichi”). E non si può dire che questo disinvolto liberty imperial-rinascimentale, contaminato di suggestioni fenicie sognate solo al cinema, questo affascinante pastiche temporale, non riesca nell’intento.

Coppedè è un fondale vivente, una scenografia abitabile: non c’è da stupirsi che in piazza Mincio (al cui centro troneggia la fontana delle Rane, oggi in restauro, in cui pare che i Beatles abbiano fatto il bagno vestiti nel 1965, reduci da una serata al Piper) ci abbiano girato una miriade di film: alcuni più felici, come Roma ore 11 di Giuseppe De Angelis (1952), La ragazza che sapeva troppo, giallo in bianco e nero di Mario Bava (1963) o Un amore a Roma di Dino Risi (1960), o il sottovalutato thriller psicologico di Francesco Barilli, Il profumo della signora in nero (1974); altri un po’ meno riusciti (come Il ragazzo del pony express, film di Franco Amurri del 1986 con Jerry Calà che si ritrova a dover consegnare, a sorpresa, un pitone a uno strano inquilino indianeggiante del palazzo dell’arco di Cabiria). Scorci di Coppedè compaiono anche in Audace colpo dei soliti ignoti, film di Nanny Loy con Vittorio Gassman del 1960, nel mitico Ultimo tango a Zagarolo di Nando Cicero (1973), in Desiderando Giulia di Andrea Barzini (1986), e in Un detective, di Romolo Girolami, con Franco Nero, Adolfo Celi e Florinda Bolkan (1969).

quartiere Coppedè

Soprattutto, non è strano che questo assurdo angolo di Roma sia così caro a un regista come Dario Argento, i cui primi film soprattutto sono uno spettacolare avvicendarsi di scenari suggestivi, un continuo piacere per gli occhi dello spettatore terrorizzato, che nella notte gotica di Coppedè segue per esempio Tony Musante che rischia di essere accoltellato nell’Uccello dalle piume di cristallo (1970) oppure, in Inferno (1980), si ritrova di fronte Eleonora Giorgi sotto il diluvio – piuttosto terrorizzata anche lei, e tutta illividita fra luci bluastre e vermiglie – che arriva in taxi alla soglia del palazzo Hospes Salve – di cui The Omen ci rivela pure la decorazione degli interni: nel film di Argento invece l’edificio ospita una bellissima biblioteca che nella realtà si trova sempre a Roma, ma da tutt’altra parte. A Coppedè, in compenso, Inferno situa la casa della Mater Lacrimarum, e tanto basta.

Io, in piazza Mincio ci entro come se entrassi davvero in un’illustrazione fantasmagorica, o nella scena di un film. E nella strana sospensione del frastuono di clacson e frenate che si stempera, nel rimbombare dei passi che sento distintamente come se non fossi più all’aperto, ma in una gigantesca bolla chiusa, mi rendo conto, ogni volta con la stessa sorpresa, che molto del fascino di questo quartiere sta nel fatto che rimane sempre uguale. Uguale a sé stesso, ma anche uguale a come compare nei film, che siano in bianco e nero o a colori, lividi di blu e di pioggia o dorati dalla luce di Roma ricostruita da qualche direttore della fotografia particolarmente bravo. I decenni, addirittura il secolo che Coppedè sta per compiere, sembrano averlo lasciato intatto, unica reliquia di un passato tutto di fantasia in una città che cambia stancamente, spesso in peggio, ma cambia tutta. Come in un incantesimo, il tempo sembra averlo risparmiato – ah, no, la fontana è schermata oggi dai pannelli, è in restauro, un cane si avvicina per guardare da vicino, scodinzola disorientato; si volta verso di me, io penso ai Beatles che ci fecero il bagno con i loro cravattini neri in una notte di cinquant’anni fa, mi siedo per terra e mi dico quanto è incredibile poter camminare e finirsene fuori dal tempo, in un posto in cui il passato sembra che si possa semplicemente proiettare, come un film, sulla superficie scabra del travertino. 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Nel 2018 Sonzogno ha pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia  in cui Gaspari mette in scena una storia d’amore, ma non solo: vuole anche, con l’aiuto di filosofi e romanzieri (da Montaigne a Flaubert, da Freud a Simone Weil), tentare di sciogliere i grandi nodi che fanno sembrare complicata la vita amorosa.
Nel 2019 è la volta di Lezioni di felicità – Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi): nel libro, attraverso la cronaca di sei settimane “filosofiche”, ciascuna vissuta nel rispetto dei precetti di una diversa scuola, Gaspari guida il lettore in un insolito esperimento esistenziale, a tratti serissimo, a tratti esilarante.

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