Su ilLibraio.it un estratto da “Quasi niente”, scritto da Mauro Corona e Luigi Maieron (in libreria dal 16 marzo), che propongono una filosofia che proviene da un passato rievocato senza nostalgie. Storie che hanno un forte legame con la montagna

Quasi niente, in libreria per Chiarelettere, ha il sapore antico delle storie narrate un tempo davanti al focolare. Storie che intrattenevano liberando sapienze semplici ed essenziali, di cui oggi si sente la mancanza.

In quest’epoca frenetica dominata dai miti del successo, della vittoria a ogni costo e dell’arricchimento, Mauro Corona, autore di numerosi bestseller, e Luigi Maieron portano un contributo diverso e spiazzante. Parlano di sconfitta, fragilità, desiderio, pace interiore, lealtà, radici, silenzio, senso del limite, amore, rievocando personaggi leggendari come Anna, Silvio, Menin, Tituta, Tacus, Orlandin, Cecilia, Tin, il trio Pakai e molti altri.

Uomini e donne che non hanno trovato spazio nei libri di storia ma hanno saputo lasciare un messaggio illuminante, che può trasformare le nostre vite. “Filosofastri” le cui minute sapienze tramandano la memoria di chi vive nelle piccole valli, dove non nevica firmato e ci si può chiamare da una costa all’altra.

Quasi niente nasce dall’incontro tra due amici che alternano storie, aneddoti, riflessioni e citazioni: una filosofia minima e pratica che al linguaggio gridato preferisce l’arte di sussurrare, in cui l’etica del fare ha sempre la meglio sull’estetica dell’apparire. Una filosofia che proviene da un passato rievocato senza nostalgie. Un tempo in cui i valori erano vissuti concretamente non per moralismo ma perché aiutavano a stare meglio.

Corona non ha certo bisogno di presentazioni. Maieron, classe 1954, dal nonno e dalla madre ha ereditato la passione per la musica, iniziando a suonare fin da bambino nella sua Carnia. Ha vinto tre edizioni del Festival del canto friulano e il premio Friùl. Ha avviato una collaborazione artistica con Corona e Toni Capuozzo con lo spettacolo Tre uomini di parola. Nel 2002 ha pubblicato l’album Si Vîf, prodotto da Massimo Bubola. Il suo album più recente s’intitola Vino, tabacco e cielo (2011).

Quasi niente Corona-Maieron

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un capitolo

È un onore e un po’ di vanto sapere che ho preservato la memoria di questi personaggi. Come diceva Macedonio Fernández, si deve scrivere innanzitutto per lottare contro l’oblio. Io la chiamo la dimenticanza, che annienta soprattutto gli ultimi cancellandoli dalla faccia del mondo. Per quel che ho potuto, nella mia terra li ho resi ancora presenti i vecchi amici che mi hanno dato forza, un buon esempio anche nei loro disastri esistenziali, i cosiddetti fallimenti. Da loro ho imparato una lezione di vita. Non potevo lasciarli disperdere. Lo scopo di uno scrittore è quello di risuscitarli tenendo viva la memoria di questi uomini che non erano inferiori a nessuno ma erano invisibili, erano le pietre di scarto. Quando costruivano le chiese, la pietra di scarto la buttavano giù spaccandola, frantumandola. A opera terminata potevi vedere la chiesa in tutto il suo splendore, una struttura magnifica. Ma lo scarto che era stato eliminato durante la costruzione faceva parte della stessa materia, soltanto con la sfortuna di non partecipare mai a ciò che appariva, al risultato finale, la cosiddetta opera d’arte. Prendiamo la Pietà, il capolavoro di Michelangelo venerato in tutto il globo. O anche il David. Quanto di quel marmo, magari solo per mezzo millimetro, non è rimasto nella storia, nell’opera che oggi ammiriamo. Eppure anche quel marmo, la parte scartata, faceva parte del blocco intero. Era la Pietà di Michelangelo anche quello, senza di lui non ci sarebbe stata nemmeno l’opera. Quel marmo lì è finito in polvere, nelle discariche del tempo insieme a tutte le persone che ci hanno lavorato. Ciò che siamo oggi è il risultato di tanti altri esseri umani che sono finiti nella polvere. Siamo il blocco unico di una scultura: gli altri, gli amici, la famiglia, gli sconosciuti, gli scomparsi erano parte del nostro blocco ma troppo spesso ce lo dimentichiamo. Isoliamo la nostra scultura, aspiriamo a diventare pezzi unici che non devono nulla agli altri. Siamo diventati sette miliardi di anime arrabbiate e solitarie.

A Cercivento viveva Valentino che chiamavamo Tin. Il suo ricordo risuona ancora oggi nelle case del paese. Tin celebrava una ricorrenza davvero particolare. In un contesto in cui il lavoro era il principale dei doveri, lui aveva deciso di non lavorare più. Gli bastava quello che aveva, pochissimo per non dire niente, e non voleva affannarsi o coltivare aspirazioni. «Al è dut nue fantats, al è dut nue.» È tutto niente ragazzi, è tutto niente. Come disse il tuo amico Rigoni Stern. Pronunciava la frase sottovoce, quasi non volesse far fatica. La sua conversione avvenne nel febbraio del 1962 quando, impegnato nei lavori per la costruzione di una strada in paese, un giorno esclamò: «A disin che fevrâr al è curt? Bisugne provâ a lavoralu!». Dicono che febbraio è corto? Bisogna provare a lavorarci! Appoggiò la pala e se ne andò.

Negli anni a seguire molti dei suoi giorni li dedicò a non fare niente restando seduto in compagnia di Pat, il suo gatto, a celebrare l’inattività. Possedeva due vestiari, uno per l’inverno e l’altro per l’estate. D’inverno indossava un cappotto di doppia misura rispetto al suo fisico minuto, d’estate indossava dei pantaloni corti, larghissimi: in entrambi i casi sembrava sparire negli indumenti. Accettava di fare piccoli lavoretti solo quando la fame non gli dava scampo. Mai di febbraio però. Non voleva soldi, a compenso chiedeva un pezzo di pane o di polenta, era l’esempio di come si potesse vivere con niente. Un anno nevicò così tanto che il suo malandato tetto si piegò. Se la neve era troppa la si toglieva, ma lui osservò che la pala non era stata inventata per lavorare sui tetti. Finché il tetto crollò. A chi chiedeva conto di quel disastro, Tin ripeteva che era stato l’ultimo fiocco di neve a procurare quel danno: a palare ogni fiocco sarebbe dovuto rimanere lassù per sempre. Rimase l’intero inverno rintanato in un angolo, dove si era ricavato un parziale riparo. Tin in passato era stato protagonista d’imprese importanti, non era un fannullone. Durante la guerra del 1915-18 salvò il paese da una rappresaglia dialogando con il graduato tedesco nella sua lingua con una tale padronanza che riuscì a convincerlo a desistere. I paesani non si capacitavano di dove avesse imparato a parlare il tedesco in quel modo, lui non lo spiegò mai. Eppure lo conosceva benissimo. Volevano sdebitarsi offrendogli dei beni, lui li rifiutò raccomandando a tutti di dimenticare quel gesto: meno si parlava di lui e più felice era. Nell’ultimo periodo della sua vita un’inaspettata pensioncina gli portò quel tanto a cui aveva sempre rinunciato. Balbettò per qualche mese, incerto sul da farsi. Nel primo periodo non ritirò i soldi, quasi li temesse; e aveva ragione. Poi tutta la sete accumulata in una vita trovò improvvisamente consolazione: ogni mese Tin tramutò la pensione in vino. C’è chi è convinto che fosse stanco, che la sua delicata sensibilità avesse accumulato troppa solitudine, perciò il vecchio Tin desiderava andarsene in anticipo. Altri insistono a dire che scelse quella strada per dimostrare la bontà delle sue teorie sottrattive, che il troppo, come diceva lui, finiva sempre per «rindi pesants i pinsîrs e distudâ i desideris», appesantire i pensieri e spegnere i desideri.

(continua in libreria…)


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