Su ilLibraio.it un racconto firmato da Donatella Di Pietrantonio (autrice de “L’Arminuta”), finalista al premio Campiello

Nell’ultimo numero di “Quaderni Urbinati di Cultura Classica” la scrittrice Donatella Di Pietrantonio* ha riscritto il mito di Medea

NOSTRA MADRE

Nostra madre, di là. Medea è rimasta nel mondo, è, in nostra assenza.

Da uccisi noi abitiamo un altrove, una lontananza. Non sentiamo nulla. Siamo volati oltre ogni terrena passione. Quando lei è rientrata in casa e ha agito ci è mancato il tempo di provare qualcosa, abbiamo solo gridato: aiuto. Ma è durato così poco, e dopo tutto è cambiato. Ci è stata risparmiata una crescita lenta e certo dolorosa, non abbiamo conosciuto l’esilio, i distacchi e le separazioni che altri avevano deciso per noi. Era quello che lei voleva, proteggere i suoi figli, non solo vendetta. Invece delle pene in programma, ci è toccata una trasformazione istantanea e radicale, un mutamento di stato.

Ora – se qui ha senso parlare di un “ora” e di un “qui” – la guardiamo nel suo dibattersi, come un pesce in un acquario che un giorno inventeranno. Un vetro immateriale s’interpone senza rimedio, fintanto che Medea resta là. Non può più farci male, non può più amarci vivi. Ama il ricordo dei figli, lei che in ricordo ci ha cambiati. Sopravvive al suo atto. La sua persistenza testimonia il nostro breve passaggio sulla Terra. Per celebrarci, per esecrarsi, sopravvive. Tutte le vendette le ha compiute. L’odio è un otre dal fondo disseccato.

A noi non è dato odiarla, o amarla, o sentire per lei alcunché. Noi siamo in questa pace eterna e devitalizzata. Solo, a volte, quando laggiù è sera e le dee versano sonno sulle palpebre dei bambini, ci arriva l’onda scura dei capelli di nostra madre che ci accompagnava nella camera, e ascoltiamo il suo respiro profumato di rose. Ci trapassano la memoria i chicchi di melograno che lei ci tendeva nei pugni aperti, “questi sono per te e questi per te”, voltandosi ora verso l’uno e ora verso l’altro di noi, sotto lo sguardo benevolo della nutrice. Li schiacciavamo tra i denti e bevevamo il succo aspro nella luce calante dei pomeriggi a Corinto.

Dopo averci perduti Medea si è mossa di luogo in luogo, con uno spostamento illusorio. Per uno che la scaccia, trova qualcuno che l’accoglie. La maga, la strega, la sempre straniera, la barbara. Trova chi la teme, chi la compiange. Il mostro, l’inumana, la vittima, la tradita, la sventurata. Può leggere negli occhi che guarda e la guardano – non sempre ne hanno il coraggio – l’orrore, o la pietà.

Certe notti la visitiamo nei sogni, unico luogo possibile, e lei si torce e spasima tra i lini. Nel buio dentro la sua testa vediamo le nostre immagini, ma non ne possediamo il controllo. Ci accarezza le gote e ritira i palmi striati di sangue. Allora il suo stesso grido la sveglia, la siede ansimante sul talamo intriso di sudore.

Eravamo figli ubbidienti, fiduciosi. Nemmeno l’ombra di un sospetto ci ha sfiorati quando Medea ci ha domandato di portare doni alla nuova sposa di nostro padre. Non capivamo, ma abbiamo obbedito. Siamo stati gentili, con la principessa. Dopo la consegna siamo tornati a casa ignari della scia di morte che ci lasciavamo dietro, siamo tornati convinti che nostra madre ci avrebbe lodati. Aspettavamo carezze dalla mano che si è levata su di noi impugnando il ferro.

L’avevamo vista infelice, Medea, l’abbandonata. Eravamo impotenti a consolarla. I baci delle nostre piccole bocche non la compensavano della perdita. L’amore per noi non ha saputo distoglierla dalla ferocia covata in seno. Lei doveva punire l’ingrato, cercava il castigo contro chi l’aveva tradita, a ogni prezzo. A prezzo di noi.

Medea era perduta, era determinata. La battaglia che ha ingaggiato dentro di sé sulla nostra sorte è stata breve. Non poteva salvarci. Eravamo già condannati ai suoi occhi a un futuro che non desiderava per le sue creature. Da quel futuro ci ha allontanati per sempre. Ci ha salvato a suo modo, sottraendoci alla vita.

Non abbiamo più età. Quelli che erano bambini con noi si grattano pensosi la barba, parlano con voce profonda, generano figli. Non conosciamo nostalgia di quel domani mancato. Siamo apatiche essenze.

Medea si trascina sotto il peso del suo misfatto. Non può mai dimenticarci, in nessuno suo istante, a questo si è dannata. Nel poco sonno che la coglie ci invoca, al posto di riposare la memoria ferma all’ultimo gesto su di noi. Allora la visitiamo, inconsistenti presenze nei meandri notturni della sua colpa. Ci domanda di portarla nel nostro luogo, dove immagina di riabbracciarci, stringerci al petto come se potesse conservare la forza e il calore del suo corpo mortale. Immagina lacrime, un perdono. S’illude. Ignora ciò che siamo, ciò che lei stessa sarà, dopo.

Ancora tutta intrisa di umano, appare piccola da questa distanza irriducibile. Se fossimo vivi proveremmo pietà di quel suo agitarsi nel mondo. Ma da quando i battiti dei nostri cuori sono cessati sotto i suoi colpi, ogni sentimento verso Medea è superato. Soltanto ci è concesso il ricordo del nostro breve passaggio terrestre e di lei, che ci fu madre.

L’AUTRICE *  – Donatella Di Pietrantonio ha esordito con  Mia madre è un fiume (Elliot 2011, premio Tropea). Con Bella mia (Elliot 2014) ha partecipato al Premio Strega. Vive a Penne, in Abruzzo, dove esercita la professione di dentista pediatrico.
Nel suo nuovo ultimo, L’Arminuta (Einaudi), in cinquina al premio Campiello, Di Pietrantonio affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale. Ne ha parlato in questa intervista.

Qui gli articoli di Donatalle Di Pietrantonio per ilLibraio.it.

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