Su ilLibraio.it un estratto da “La custodia dei cieli profondi”, il nuovo libro di Raffaele Riba

Cascina Odessa è un satellite periferico di un Pianeta ancor più periferico che naviga placido ai margini della Via Lattea. Un mausoleo eretto sopra i resti di un cane, un microcosmo un tempo forse perfetto e ora malato della malattia della dispersione. Gabriele lotta, contrappone la cura al disfacimento, è erede e custode, e resiste al progressivo sfaldarsi della propria famiglia. Finché non si consuma l’addio più doloroso, quello di suo fratello. Il legame è spezzato, e perfino l’universo sembra accordarsi a questo cataclisma minore: nel cielo compare un altro sole ‒ un sole debole ‒, una luce blu si fonde con la luce gialla, allaga la notte, sovverte il ritmo circadiano. Piovono poiane, i grilli tacciono, gli alberi sono allo stremo e le ore si dilatano in secoli, millenni. E per il Custode è arrivato il momento di abbandonarsi alla folle entropia del Tutto…

Raffaele Riba torna in libreria con La custodia dei cieli profondi (66thand2nd). L’autore, nato a Cuneo, classe ’83, è tra i curatori di Scrittorincittà e insegna alla Scuola Holden. Ha esordito nel 2014 con Un giorno per disfare (66thand2nd) e nel 2015, per Loescher, è uscito Abbi pure paura.

Raffaele-Riba

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Eppure, da bambino, Emanuele Sperici aveva paura del cielo. Ho questo ricordo pieno e consistente della nostra infanzia, in cui io comincio a ballare in cerchio nel vento e mio fratello mi chiama, mi chiama ancora, e io rimango tra vortici di foglie di betulla che si alzano e poi s’abbassano.

È quasi sera, sta arrivando un temporale e noi siamo nel campo. Abbiamo appena smesso di giocare e l’aria cambia. Si alza prima una foglia, poi due, poi mille. Emanuele guarda stupefatto il cielo. Nubi lucide, bombate, color mercurio. Rondini che fuggono verso est, veloci. Tracce di rami e sementi che si lanciano in traiettorie complesse e infinite. È uno spettacolo meraviglioso per me che ho nove anni, e l’inquietudine c’entra. Allora mio fratello capisce che non ce la fa e mi chiede «Gabriele vieni?». Me lo dice una volta e poi aspetta. Ma io rimango lì a ballare, a danzare come un pellerossa in trance, sicuro di controllare le migliaia di componenti che determinano la fisica del mio temporale. Emanuele ha sei anni e ha il terrore di muoversi. Stringe una mano nell’altra, sbatte i piedi a terra, ha la pelle d’oca sulle braccia (che non potevo vedere). «Gabriele vieni!» mi dice ancora, e mentre il suo corpo chiede per favore il mio continua in quello che sta facendo.

Reagire. Ho una sensazione bella, accordata, piena. Perché il vento si sente, mi riempie i vestiti, si insinua sotto la maglietta e i pantaloncini. Si trascina i capelli lunghi e corvini di mio fratello.

C’è elettricità e a me semplicemente piace stare lì, in un tempo che adesso mi sembra denso da morire. È densa la faccia di Emanuele, la sua paura, sono densi i miei movimenti, è denso il vento. Sono dense le nuvole, dense le sei e dieci che a un certo punto, ballando, intravedo sul mio orologio. E alle sei e dieci un fulmine, due fulmini; poi due tuoni debordanti muovono la parte alta dell’atmosfera. A quel punto Emanuele si arrende: sapevo che da lì a un attimo sarebbe scoppiato a piangere. Allora lo raggiungo, gli dico: «Balla, balla Emanuele, che non succede niente, che il vento è bello. Balla che chiamiamo la pioggia». Cerco di prendergli il braccio, di coinvolgerlo nel movimento generale, ma lui lo ritira, arrabbiato, scocciato, deluso.

Allora vattene, penso, e lui urla: «Non puoi star lì, si può morire!». «E come?» grido io, mentre corro lontano. «Se ti afferrano i fulmini» è la risposta che mi è sembrato di sentire per una vita.

(continua in libreria…)

 

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