Trent’anni fa usciva negli Stati Uniti “Il rap spiegato ai bianchi” di Mark Costello e David Foster Wallace. Una lettura da recuperare, nonostante i limiti, che riesce a dirci molte su come si è evoluta la narrazione della cultura black

L’approfondimento de ilLibraio.it, che parte dall’America di fine anni ’80 – post-reaganiana per definizione, e arriva al dibattito di questi anni, citando l’universo Afropunk, i saggi di Zadie Smith, serie tv come “Pose” e le tante contraddizioni, a partire dal permanere di pregiudizi e odio razziale

Nel 1989 il rap celebrava il suo primo decennio di vita: nei sobborghi delle grandi metropoli degli Stati Uniti, dove era nato, sempre più artisti neri si riappropriavano della loro voce attraverso quello che era a tutti gli effetti un genere musicale di rottura. Nel 1989, il rap diventava grande, o meglio mainstream: le prime hit in classifica (Public Enemy, De la Soul, Ice T e NWA) conquistarono gli stereo di tutti i ragazzini, compresi quelli bianchi.

L’America di fine anni ’80 – post-reaganiana per definizione – affrontava problemi di droga, criminalità giovanile e razzismo dilagante.

La rabbia era il sentimento primario che muoveva i giovani neri a creare rime come dei moderni aedi (e alla fine la storia dimostrerà che di epica si tratta) su basi campionate e ritmi scratchati.

Il rap: un fenomeno oscuro per la stragrande maggioranza degli americani, una sottocultura da guardare dall’alto in basso. Da questa premessa partono due studenti ventiseienni per scrivere il primo saggio mai dedicato al rap: uno è Mark Costello, aspirante avvocato, e l’altro è David Foster Wallace, e il libro di cui si parla è Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present, che proprio nel 2019 compie 30 anni.

Signifying Rappers (citazione di una canzone di Schoolly D) è il testo seminale che provò a raccontare a un pubblico di non-addetti ai lavori – leggi, i bianchi – a capire un genere musicale e un fenomeno sociale che, nella società globalizzata e fluida di oggi sembra davvero difficile da credere, apparteneva a un mondo totalmente diverso. Tradotto in italiano per minimum fax solo nel 2000 da Martina Testa e Christian Raimo, con il titolo Il rap spiegato ai bianchi, e riproposto in ristampa nel 2014, è un libro che vale ancora la pena leggere e conservare, seppur contenga qualche ingenuità che oggi forse non gli verrebbe perdonata.

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Se nel 2019 in alcuni suscita ancora un certo fastidio, in America, vedere dei bianchi che fanno rap, o in generale artisti che si approprierebberodella cultura nera per avere successo (come ad esempio Post Malone, ma anche Miley Cyrus o Justin Bieber), la stessa cosa accade quando due scrittori bianchi si arrogano il diritto di spiegare il rap, proponendosi come mediatori per spiegare a un pubblico bianco un tipo di cultura che non gli appartiene. I due autori, che si alternano nella scrittura dei capitoli, appaiono né più né meno come quello che sono: due turisti del rap e della sua cultura, che si muovono con un piede nemmeno tanto leggero e con un approccio decisamente poco antropologico o distaccato. Il tono sfiora talvolta l’ironico in una maniera che oggi troveremmo imbarazzante quanto troviamo imbarazzanti e fuori luogo certe battute di Friends.

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Si tratta pur sempre di una questione metodologica, di cui sono pienamente consapevoli loro stessi, tanto da impiegare interi capitoli per trovare una legittimazione. Tuttavia, fatta esclusione per questo aspetto e per i riferimenti datati ad avvenimenti e nomi che possono risultare oscuri, sussistono ancora parti molto valide che spiegano con assoluta chiarezza il ruolo sociale del rap, le sue origini e la sua validità come musica, la sua portata rivoluzionaria e infine, non da meno, il fatto che sia una musica pensata da neri per neri.

Ispirato alle opere esplosive a metà tra critica musicale e giornalismo gonzo di Lester Bangs, il saggio approccia il rap e prova a interpretarlo come fenomeno culturale, cercando di elevarlo e di interpretarlo per un pubblico diverso. Costello e Wallace definiscono viziati e stizzosi i Beastie Boys, osannano i Public Enemy nel momento del loro declino; ma, soprattutto, riescono a far emergere la dimensione di lotta e riscatto sociale insita in questo genere.

Per scoprire che cosa è diventato il rap oggi, bisognerebbe rivolgersi ai testi di Zadie Smith, affidabile narratrice dei nostri tempi sia come romanziera sia come saggista. Smith si è posta spesso in continuità con il lavoro di David Foster Wallace, e mantiene la stessa freschezza di sguardo sul contemporaneo del suo collega. Il destino dei rapper (più che del “rap” come genere) emerge a più riprese nell’ultima raccolta Feel Free (Big Sur, 2018, tradotto da Martina Testa). L’analisi più importante sull’attuale ruolo dei rapper la fa nel ritratto di Jay-Z, datato 2012, in cui il Re Mida del rap commenta l’attuale inclusività del genere, che “ha raggiunto un livello di accettazione culturale senza precedenti e siamo liberi di rendere omaggio a questa forma senza doverla difendere in continuazione”, nonostante spesso ancora venga liquidato solo come parolacce e uomini che umiliano le donne.

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Jay-Z riconosce quanto l’hip hop si sia evoluto, anche grazie alla presidenza di Obama. Continua dicendo che i rapper degli inizi si sono trasformati in anziani statisti e una seria responsabilità pesa “sulle spalle di questi legislatori non riconosciuti la cui poesia esiste solo da quarantanni.” Se c’è una cosa che infatti l’immaginario del rap e dell’hip hop ha mantenuto negli anni, e che viene evidenziato anche in Signifying Rappers, è la conformità al modello di successo capitalistico (motori, moda, donne): ai giovani neri viene ancora insegnato che non meritano nulla, perciò si mettono in mostra quando raggiungono il successo nei termini condivisi dalla cultura che li circonda: “I fan del rap impegnato si aspettano di veder recidere questo legame tra ricchezza e vera libertà”, è la conclusione di Jay-Z.

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Il 2018 ha dimostrato come non mai che l’hip hop non è più lo stesso di quello descritto in Signifying Rappers, e sembrerebbe che non ci sia spazio per la nostalgia, al contrario dei tanti altri generi musicali che, agonizzanti, si guardano indietro per cercare di riproporre qualcosa di (non) nuovo.

Paradossalmente, la nostalgia è il motore che muove la musica oggi, e il rap sembrava escluderlo, fino a quando non è stato annunciato il tour congiunto di Public Enemy, De la Soul e Wu Tang Clan.

Per chi volesse integrare la lettura di Signifying Rappers, Il rap anno per anno di Shea Serrano è finalmente disponibile in Italia per Mondadori; il volume fornisce un annuario completo di tutta la storia del rap, rigorosamente americano, dal 1979 a oggi. Si comincia con Rapper’s delight della Sugar Hill Gang e si finisce con This is America di Childish Gambino, canzone selezionata dalla curatrice Marta “Blumi” Tripodi, che nella versione italiana si è occupata di colmare il vuoto dal 2015 al 2018.

La cultura black nel 2018 ha fatto scuola e si è imposta qualitativamente sopra ogni altra. Partendo dai lavori di Kendrick Lamar (Premio Pulitzer 2018), Childish Gambino e Janelle Monaè, passando per Black Panther candidato come Miglior Film agli Oscar, fino a serie tv come Pose, la cultura black non è mai stata così universalmente apprezzata. Ma come notano molti critici, la cultura è molto più apprezzata delle persone black, nere. Come ha affermato nel 2015 Kierna Mayo, direttrice di Ebony, testata dedicata alla popolazione afroamericana degli Stati Uniti, se “l’America ama la cultura black”, così non accade per le persone, che ancora vittime di pregiudizio, quando non di odio razziale.

A livello culturale, l’universo Afropunk è stato di grande supporto nel promuovere la visione della black culture nel mondo. Il termine afropunk nasce nel 2003 da un documentario che racconta la partecipazione degli afroamericani nella controcultura punk, nel 2005 diventa poi un festival underground di New York per celebrare la musica black in tutte le sue forme.

Negli anni il festival è diventato un vero movimento che ha generato altre edizioni a San Francisco, Parigi, Londra e Johannesburg, oltre a un progetto editoriale online di grande risonanza, una voce unica per esaltare la cultura black e denunciare casi di razzismo e appropriazione culturale. Una piccola roccaforte dei diritti neri, minata al suo interno da tensioni e contraddizioni, culminate nel settembre 2018 con le dimissioni del direttore Lou Constant-Desportes, che ha denunciato sui suoi canali le pressioni subite e le condizioni di lavoro precarie.

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