Davide Tortorella ricorda Vittorio Sermonti, che “ha traghettato in salvo il poema dantesco per noi lettori nel terzo millennio”

Per Vittorio

Vorrei provare a raccontarvi che cosa ha significato nella mia vita, e credo anche nella vita di molti che non hanno avuto come me il privilegio della sua amicizia, la presenza di Vittorio Sermonti nel mondo.
A differenza di lui, sono sempre stato agnostico (so che non è questa la sede migliore per confessarlo) ma essendo come lui sempre stato affetto dal vizio di leggere ho sentito da subito la necessità di scegliermi un testo sacro. Letterariamente sacro, s’intende.

Mi bastò il poco che ero riuscito a capirne da liceale per decidere che nessun libro mi sarebbe mai piaciuto più della Divina Commedia. Così, quando dopo la maturità mi accinsi a leggerla finalmente per intero, compresi cioè i 52 canti non previsti dal programma scolastico, pregustavo la somma beatitudine.

Fu un supplizio. Più mi addentravo in quella meraviglia, più soffrivo per l’impossibilità di leggerlo come ogni libro merita e chiede: difilato. Se cercavo di affrontare le terzine senza le note, mi condannavo a continui blackout di senso e quindi di felicità, ma se alternavo testo e note mi pareva di ascoltare la Nona di Beethoven da un’orchestra che si interrompa a ogni battuta per accordare gli strumenti.

Mi sentivo come chi arranca alle pendici di un monte Eden che non scalerà mai per intero. Molti bei scorci, ma la vista intera, il panorama completo, erano preclusi dalla frana dei secoli. Nonostante il tirocinio scolastico, la venerazione al patrono nazionale e il moltiplicarsi di edizioni commentate, il mio testo sacro, pareva definitivamente insormontabile – e non mi riferisco ai sovrasensi allegorici ma al semplice senso immediato: la lettera.

dante

Poi un mattino, per caso, per sbaglio, invece del bip bip della sveglia, partì la radio. Apro gli occhi mentre una voce racconta l’orrore di due viandanti che si trovano ad attraversare uno spesso lago di ghiaccio dovendo fare attenzione a schivare le teste di molti che vi sono conficcati. Col cuore in gola, riconosco uno degli ultimi canti dell’Inferno, e registro il miracolo di una parafrasi che rifonde insieme il casellario delle note bio-topografiche e la durezza del dettato dantesco, trasformandoli con un magico colpo di shaker in un romanzo d’avventura – e senza perdere una sola briciola di rigore filologico.

Poi, la stessa voce attacca a leggere le terzine. E succedono due cose stupefacenti: la prima è che di colpo capisco, cioè reggo il passo della lettura senza inceppi e senza eclissi, come insufflato da un fuoco pentecostale. La seconda è che mi accorgo che questa voce dice gli endecasillabi come mai nessuna prima. Non recita, non interpreta, non declama: esegue. Con la sensibilità di chi ha un orecchio assoluto, solfeggiando, fa sì che sia il canto a cantarsi da sé, in virtù della propria prosodia. E poi, che voce: una voce bruna, d’inchiostro, emozionante come può esserlo solo il nero delle parole sul bianco della carta, quando le parole sono quelle.

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Inutile dire che mi procuro subito una copia dell’Inferno di Dante – Vittorio Sermonti. E finalmente posso godermelo in un fiato solo, il mio sacro poema: canto dopo canto, supero i crepacci, scalo pareti impervie, volo. Nella pagina ritrovo la stessa voce, quella di un uomo che con amabilissima disinvoltura profonde interamente, solo per te lettore, la sua sapienza enciclopedica, la sua potenza narrativa, il suo amore di pedagogo e di padre. Il tutto coronato da un’ironia sorprendentemente affine al suo oggetto, e da un’intelligenza interpretativa travolgente. Questo divulgatore non abbassa il testo fino a te, innalza te fino al testo. E senza mai “rubare la scena” al suo autore, senza mai una battuta o un effetto facile, mai la minima drittata, la minima guittata. Lui, il narratore/chiosatore, mi dà continuamente del tu per ricordarmi che a leggere quel libro (facendomi leggere da quel libro, come non si stanca di ripetere) sono tu/io, un io unico e irripetibile in luogo di una massa di noi. (E perfino lui, il mio divulgatore adorabile, è un tu, l’unico io essendo il pellegrino che rievoca il proprio viaggio chiamato Divina Commedia).

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Con sapienza, con potenza e con amore, il commento si incendia e si consuma per intero, restituendo intatta e di nuovo accessibile a ognuno dei suoi “tu” la massima opera della lingua italiana. Le rapinose parafrasi premesse a ogni canto danno al lettore, forse per la prima volta in sette secoli, la voce e il fiato per arrivare in vetta all’Everest della poesia. E lo sherpa che si è spericolato per accompagnarci, si chiama, si è chiamato, non si chiamerà più, si chiamerà per sempre Vittorio Sermonti.

Come poi io abbia avuto la ventura di conoscerlo e diventargli addirittura amico, interessa credo solo me, tranne per il dettaglio che un giorno espresse il desiderio che fossi io a pronunciare la sua orazione funebre. Cosa che purtroppo adesso sto facendo, penosamente, sentendomi all’altezza del compito più o meno come Kung Fu Panda… ma certo la sua investitura misteriosa è un’onorificenza che non cambierei con tutte le gran croci e le legioni d’onore del mondo.

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È invece necessario ricordare questo: se Vittorio ha traghettato in salvo il poema dantesco per noi lettori nel terzo millennio, il merito è di una Beatrice che si chiama Ludovica Ripa di Meana. Infatti questa storia nasce da una lettura d’amore, durante una vacanza in cui Vittorio fa a Lully omaggio vocale dei primi canti della Commedia, dopo che lei gli ha confidato di non essere mai riuscita (non era l’unica) ad abbracciarla per intero. Al termine della prima amorosa e singolare lezione, Lully, che è un poeta, e come tutti i veri poeti è perentoria e pensa in grande, sentenzia: “Se tu non fai questa cosa in pubblico, sei pazzo”.

Così, con il supplementare intervento provvidenziale di un padre d’elezione chiamato Gianfranco Contini, la Divina Commedia di Sermonti è diventata quella di tutti noi. Faccio un’altra confessione: sono privo di sentimento patriottico. Non riesco a emozionarmi davanti alle bandiere che garriscono, non mi sciolgo agli inni, le adunate nazionali mi lasciano indifferente. Eppure poche cose mi commuovono come il pensiero che la mia, la nostra patria è l’italiano che parliamo, gli apparteniamo e ci abitiamo, e chiunque, da Orzinuovi o da Canicattì, da Krasnojarsk o da Ouagadougou, chiunque condivide con me la lingua del sì, lo sento come fratello e compatriota. Vittorio Sermonti ci ha dato e ci ha restituito un pezzo di questa patria, e per mezzo della carità feconda di Lully, ci ha fatti tutti figli di Dante: Vittorio sollecito maestro, Vittorio dolcissimo padre.

 

L’AUTORE – Davide Tortorella è figlio di Cino Tortorella (il popolare “Mago Zurlì”) e della celebre pianista Jacqueline Perrotin. Autore televisivo di testi e quiz per trasmissioni per ragazzi, ha lavorato a Freeradio, per poi interpretare il ruolo di “Telenotaio” alla Ruota della fortuna e in altri game condotti da Mike Bongiorno. Come autore musicale collabora, tra il 1991 e il 1997, con la cantautrice Giuni Russo e con la musicista Maria Antonietta Sisini, alla stesura di molti brani come: Amala, La donna è mobile, Suggestione mentale. 

Per gentile concessione dell’autore, abbiamo pubblicato il testo dell’orazione declamata da Davide Tortorella in occasione della cerimonia funebre di Sermonti (Roma, 26 settembre 1929 – Roma, 23 novembre 2016).

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