Nottetempo ha fatto riscoprire ai lettori italiani lo scrittore uruguaiano figlio di immigrati italiani, considerato un simbolo della letteratura sudamericana – Leggi un capitolo da “La tregua”

La mano di Santomé, impiegato annoiato di una grande azienda di Montevideo, riporta su un diario la routine e la quotidianità di un anno di vita. Assuefatto alla monotonia che spesso diventa destino, e dimentico di sé a causa delle responsabilità e dei figli, il quarantanovenne vedovo e ormai prossimo alla pensione guarda disilluso ogni attimo delle sue giornate. Non sembra notare nemmeno Laura, giovane ragazza che, inesorabilmente, diventerà per lui la possibilità di “risentirsi vibrare” e di riscoprire “quell’oppressione al petto” che è  “la vita”…

Attraverso una scrittura diaristica magnetica nella sua semplicità, ne “La tregua” (Nottetempo) di Mario Benedetti (Paso de los Toros 1920 – Montevideo 2009), figlio di immigrati italiani, si scorgono i pensieri di un uomo normale; i pensieri che ci accomunano.

Pubblicato da Feltrinelli nel 1986 e quasi ignorato all’epoca, il libro è stato recentemente riproposto da Nottetempo, diventando un piccolo caso: 5mila copie vendute 3 ristampe di questi tempi sono un ottimo risultato per la casa editrice indipendente romana.

Benedetti (che lasciò l’Uruguay dopo il golpe militare del 1973, soggiornando prima in Argentina, poi in Perù, a Cuba e a Madrid) ha conquistato la fama negli anni ’60, ed è considerato un simbolo della letteratura sudamericana.

 

 Su IlLibraio.it un estratto da La tregua (pp.22-27) – Trad. di Francesco Saba Sardi

Venerdì, 22 febbraio

Credo che, quando andrò in pensione, smetterò di scrivere questo diario, perché allora senza dubbio mi accadranno molte meno cose rispetto ad adesso e mi riuscirà insopportabile sentirmi tanto vuoto e per di più lasciarne una testimonianza scritta. Quando andrò in pensione, può darsi che il meglio per me sia abbandonarmi all’ozio, a una specie di sonnolenza compensatrice, in modo che i nervi, i muscoli, la forza si rilassino a poco a poco e si abituino a una buona morte. Ma no. Ci sono momenti in cui avverto e coltivo la sontuosa speranza che l’ozio sarà qualcosa di pieno, di ricco, l’ultima occasione di incontrare me stesso. E questo sì che varrebbe la pena di annotarlo.

Giovedì, 28 febbraio

Questa sera ho chiacchierato con una Blanca a me quasi sconosciuta. Eravamo soli dopo cena. Io leggevo il giornale, lei faceva un solitario. All’improvviso si è bloccata, una carta a mezz’aria, lo sguardo insieme perso e melanconico. Sono rimasto a osservarla qualche istante, poi le ho chiesto a cosa stesse pensando. Allora si è come destata, mi ha rivolto un’occhiata desolata e, incapace di trattenersi, si è presa la testa tra le mani, come se non volesse nessuno a profanare il suo pianto. Quando una donna piange in mia presenza, mi sento indifeso e, peggio, imbranato. Mi dispero, non so come rimediare. Questa volta ho obbedito a un impulso naturale. Mi sono alzato, mi sono avvicinato a lei e ho preso a carezzarle la testa, senza dire niente. Presto si è calmata, i singhiozzi convulsi si sono fatti più radi. E quando finalmente ha abbassato le mani, con la parte pulita del mio fazzoletto le ho asciugato gli occhi e le ho soffiato il naso. In quel momento non sembrava una donna di ventitré anni, ma una ragazzina in preda alla disperazione perché le si è rotta la bambola o non la vogliono portare al giardino zoologico. Le ho domandato se si sentiva infelice e mi ha detto di sì. Gliene ho chiesto il motivo, e mi ha risposto che non lo sapeva. Non mi ha molto sorpreso. Io stesso a volte mi sento infelice senza una ragione precisa. Ma negando la mia stessa esperienza, le ho detto: “Oh, qualcosa ci sarà. Non si piange per niente”. Allora ha cominciato a parlare con voce rotta, spinta da un improvviso bisogno di sincerità: “Provo l’orribile sensazione che il tempo passi e che io non faccia niente, che niente accada e che niente mi tocchi davvero. Guardo Esteban e guardo Jaime, e ho la certezza che anche loro siano infelici. A volte (non arrabbiarti, papà), guardo anche te e penso che non vorrei arrivare a cinquant’anni e avere il tuo carattere, il tuo equilibrio, semplicemente perché li trovo piatti, logori. Sento in me una grande riserva di energia, e non so come impiegarla, che farmene. Credo che tu ti sia rassegnato a essere grigio, e questo mi sembra orribile, perché so che non lo sei. Per lo meno, che non lo eri”. Le ho risposto (che altro potevo dirle?) che aveva ragione, che facesse tutto il possibile per allontanarsi da noi, dalla nostra orbita, che mi piaceva molto sentirla proclamare il suo disaccordo, che avevo l’impressione di ascoltare un grido mio, di molti anni fa. Allora ha sorriso, ha detto che ero molto buono e mi ha gettato le braccia al collo, come un tempo. È ancora una ragazzina.

Venerdì, 1° marzo

Il direttore ha convocato i cinque capireparto. Per tre quarti d’ora ci ha parlato dello scarso rendimento del personale. Ha detto che la Direzione gli aveva fatto osservazioni al riguardo, e che d’ora in poi non era disposto a tollerare più che, a causa della nostra negligenza (e come gli piace sottolineare la parola “negligenza”), ci andasse di mezzo lui. Quindi, da questo momento in poi, eccetera eccetera.

Chissà che cosa intendono per “scarso rendimento del personale”? Io per lo meno posso affermare che i miei lavorano. E non soltanto i nuovi, ma anche i vecchi. È vero che Méndez legge gialli, che scaltramente sistema nel cassetto centrale della scrivania, mentre con la destra impugna una penna sempre attento al possibile ingresso di un superiore. È vero che Muñoz approfitta delle sue scappate all’Agenzia delle Entrate per strappare alla ditta venti minuti di riposo davanti a una birra. È vero che Robledo, quando va al gabinetto (esattamente alle dieci e un quarto), porta con sé, nascosto sotto il grembiule, il supplemento a colori del giornale o la pagina sportiva. Ma è altrettanto innegabile che il lavoro è sempre aggiornato e che, nelle ore in cui bisogna darci dentro e la posta pneumatica della cassa funziona a spron battuto, piena di fatture, tutti sgobbano con vero spirito di squadra. Nella propria limitata specializzazione, ciascuno è un esperto e posso essere assolutamente sicuro che tutto marcia come si deve.

In realtà, so benissimo a cosa mirasse il sermone del direttore. Spedizioni lavora a rilento e, come se non bastasse, svolge male i suoi compiti. Tutti sapevamo che la filippica era per Suárez, ma allora perché convocarci tutti? Che diritto ha Suárez di farci condividere una colpa che è esclusivamente sua? Che il direttore sappia, come tutti noi, che Suárez va a letto con la figlia del presidente? Niente male, quella Lidia Valverde.

Sabato, 2 marzo

Questa notte, dopo trent’anni, ho sognato di nuovo i miei babau. Quando avevo quattro anni, o forse meno, mangiare era un tormento e mia nonna aveva inventato un metodo davvero originale per farmi ingurgitare senza tanti problemi il purè di patate. Si infilava un enorme impermeabile di mio zio, tirava su il cappuccio e si metteva un paio di occhiali neri. E con questo travestimento, per me terrorizzante, veniva a bussarmi alla finestra. La domestica, mia madre, qualche zia, cominciavano a strillare in coro: “C’è don Policarpo!” Don Policarpo era una specie di mostro che puniva i bambini che non mangiavano. Inchiodato al mio terrore, impiegavo le poche forze che mi rimanevano per far andare le mandibole a folle velocità e spazzolare così l’orrendo, sovrabbondante purè. Era comodo per tutti. Minacciarmi con l’apparizione di don Policarpo equivaleva a premere un bottone quasi magico. Aveva finito per diventare un gran divertimento. Quando c’erano visite, portavano gli ospiti in camera mia perché assistessero alle comiche minuzie del mio panico. Strano come a volte si riesca a essere tanto innocentemente crudeli. Perché, oltre allo spavento, c’erano le notti, le mie notti piene di babau silenziosi, insolita specie di Policarpi che sempre si presentavano di schiena, avvolti in una spessa bruma, e sempre in fila, quasi aspettassero il loro turno per entrare nella mia paura. Non dicevano una parola, ma si muovevano lentamente con una specie di oscillazione intermittente, strascicando le tuniche scure, tutte uguali, poiché l’impermeabile di mio zio aveva finito per assumere quella forma. Curioso: nel sogno ero meno terrorizzato che nella realtà. E, a mano a mano che gli anni passavano, la paura si andava trasformando in fascinazione. Con quello sguardo assorto che in genere si ha sotto alle palpebre del sonno, assistevo come ipnotizzato a quella scena ricorrente. A volte, mentre sognavo un altro sogno qualsiasi, avevo un’oscura consapevolezza che avrei preferito sognare i miei Policarpi. E una notte vennero per l’ultima volta. Si misero come al solito in fila, si dondolarono, restarono in silenzio e, come sempre, svanirono. Per otto anni dormii avvertendo un ineludibile disagio, una sensazione quasi morbosa di attesa. A volte mi addormentavo ben deciso a ritrovarmeli davanti, ma riuscivo soltanto a creare la bruma e, in rare occasioni, ad avvertire le palpitazioni della mia antica paura. Nient’altro. Poi persi addirittura la speranza, e impercettibilmente giunsi a un’età in cui cominciai a raccontare agli estranei l’elementare contenuto del mio sogno. Arrivai persino a dimenticarlo. Fino a stanotte. Stanotte, mentre ero proprio nel bel mezzo di un sogno più volgare che peccaminoso, tutte le immagini si sono dissolte ed è apparsa la bruma e, immersi nella bruma, i miei Policarpi. So che mi sono sentito indicibilmente felice e orripilato. E ancora adesso basta che mi sforzi un pochino e riesco a ricostruire in parte quell’emozione. I Policarpi, gli indeformabili, eterni, innocui Policarpi della mia infanzia hanno dondolato, dondolato, poi, d’un tratto, hanno fatto qualcosa di imprevisto. Per la prima volta si sono voltati, un istante solo, e avevano tutti il volto di mia nonna.

 

(continua in libreria…)

 

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