“Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi” di Carlo Emilio Gadda (1893 – 1973), a cura di Liliana Orlando, raccoglie scritti di varia natura che affrontano temi come il realismo, il rapporto tra scienza e letteratura, quello tra lingua e dialetto, passando per riflessioni sulla scrittura dell’Ingegnere, da molti considerata barocca e difficile. Il titolo, allora, non potrebbe essere più azzeccato per questa miscellanea, la cui proteiformità non è un capriccio del “famigerato calligrafo”, ma una precisa forma del pensiero, un tentativo di elaborare una visione del mondo… – L’approfondimento

Esiste una foto dell’Ingegnere al giardino zoologico di Roma sullo sfondo del recinto degli orsi polari. È stata pubblicata il 13 gennaio 1966 su La Fiera letteraria come accompagnamento a un articolo di quel “famigerato calligrafo” che era Gadda, intitolato Il dolce riaversi della luce; uno scritto di registro ed elaborazione stilistica altissimi, il cui accostamento alla fotografia crea un effetto quantomeno bizzarro. Questa inusuale unione descrive bene l’atmosfera dell’ultima raccolta di saggi di Gadda, Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi, a cura di Liliana Orlando (Adelphi, 2019), che raccoglie scritti di varia natura usciti fra il 1927 e il 1966 e ordinati in sei sezioni tematiche: letteratura, lingua e dialetti, arte, spettacolo, tecnica e società, più una, eponima, eterogenea e difficilmente classificabile; infine, delle note ai testi molto dettagliate, a firma della curatrice, che contestualizzano gli articoli e ne mettono in luce le caratteristiche salienti, i presupposti, il contesto di scrittura e gli eventuali rapporti con il resto della produzione gaddiana. 

Divagazioni e garbuglio Gadda

Quello strano accostamento fra la bizzarra fotografia dell’autore e l’articolo si riflette nella scrittura divagante e che procede per accumulazione e notazioni talvolta impressionistiche, altre volte estremamente accurate, come ben sintetizza il titolo della raccolta che fa riferimento tanto alla scelta dei temi, quanto alle peculiarità dello stile della prosa saggistica di Gadda, non così lontana dalla sua produzione romanzesca.

L’Apologia Manzoniana, il primo articolo del ’27 che apre la raccolta, non a caso inizia con un generico “egli” il cui referente non viene esplicitato, come spesso accade, ad esempio, nella Cognizione del dolore e il saggio procede per accumulazioni, talvolta anaforiche, organizzate in brevi paragrafi che hanno quasi la forma di descrizioni di immagini pittoriche (e il lessico delle arti abbonda, con dei movimenti analogici funzionali a proporre un parallelismo fra lo stile dei Promessi Sposi e quello visivo del Caravaggio). 

carlo-emilio-gadda-la-cognizione-del-dolore

E il paragone ardito, spesso dissacrante, è una delle costanti stilistiche di questa scrittura: gli Essais Critiques di Marcel Arland sono, così, “una gaia bottega, sul di cui banco sia stata disposta merce varia e curiosa, da piacere alla gente”; Proust è “un imbuto sagace” che permette “di bere in una lenta sorsata i mille rivoletti, i mille apporti dell’analisi. È una nave soccorritrice che si carica di mille passeggeri, anziché di dieci”, dove la prosaicità dell’immagine si rivela quanto mai efficace per esprimere la complessità e la profondità della frase proustiana. D’altro canto, l’icasticità, talvolta caricaturale (Giuseppe Rovani diventa “lo Scapigliatone”), è una delle caratteristiche più immediatamente rilevabili di questa scrittura, che arriva a immaginare un Foscolo sbattersi “un frittatino” e ingollarsi una “sorsata di mistrà”; o a utilizzare il linguaggio stesso degli Ossi di Seppia per tessere un’appassionata lode di Montale, l’unico autore vivente, come rammenta Piero Citati in un Ricordo di Gadda, che l’ingegnere ammirasse autenticamente. 

È una scrittura, dunque, che non rispetta nessun canone giornalistico o saggistico dell’epoca, come testimoniano i vari scambi epistolari fra Gadda e i direttori dei giornali ai quali propone i suoi articoli; così si legge, ad esempio, in una lettera a Enrico Falqui a proposito di un elzeviro per la rivista Tempo: “Quanto al ‘barocco‘ e alla ‘sintassi‘ (non lo dico per te, scusa; ma permettimi) devo credere ormai che si tratti di dicerie artatamente denigratorie per eliminare un concorrente… i miei periodi osservano la più ortodossa, la più canonica sintassi: i miei vocaboli sono registrati nei vocabolari dell’uso, e nel senso in cui li adopero: (parlo degli elzeviri)”.

Già nel ’48, dunque, Gadda era bollato come un autore barocco, difficile, dalla sintassi artatamente complessa e dalle scelte lessicali inusitate, disponibili all’espressione impura. Eppure, leggendo a distanza di anni queste pagine, si ha l’impressione di una scrittura affatto felice, in grado di cogliere e suggerire delle particolarità sottese e implicite – alla realtà e all’arte – proprio in virtù del suo particolarissimo stile. E non si tratta solamente di una strutturazione della frase, ma di organizzazione generale della scrittura – della struttura – e, dunque, del pensiero. 

contini gadda

Divagazioni e garbuglio può essere letto in almeno tre modi differenti, ed è forse la stessa natura composita della raccolta a richiederlo: in primo luogo, e com’è naturale che sia, si tratta di una miscellanea di saggi che testimoniano degli interessi dell’autore (che continuamente ritorna là dove il dente duole, come i Promessi sposi, che fra i 9 e i 16 anni ha letto dieci volte “e sempre mi incantano” – così scrive in una lettera a Citati) e contemporaneamente, questi scritti, sono occasione di riflessione critica sui temi che affronta.

L’aspetto che forse più salta all’occhio è l’attenzione, inusuale nell’Italia di quegli anni, per le scienze e le tecniche, che si fa sia oggetto di autonomo ragionamento, sia dialogo fra la scienza e la letteratura, tanto nei metodi della critica letteraria, quanto nella forma delle opere; così, recensendo uno studio quantitativo e statistico sulla Commedia umana di Balzac, Gadda nota: “Notevole, nell’Abraham critico letterario, la dimestichezza con le notazioni scientifiche e matematico-ingegneristiche: questa è una parentesi che apro in onore di quelli che si spaventano appena parlar numeri o figure, o termini o cose tecniche in gènere […] Esistono dei paesi a sto mondo […] dove un pubblico medio di persone mediamente colte, non si terrorizza, come il nostro, al primo nominare un parallelogramma“.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana gadda

Ma più interessante, forse, è la dimestichezza con cui Gadda utilizza la teoria della relatività o le più recenti acquisizioni della fisica per spiegare, seppur in maniera analogica e impressionistica, dei fatti di stile letterario: così la frase di Proust e il particolare uso dei punti di vista che informano la Recherche sono paragonati ai metodi e ai canoni della “moderna fisica dei quanti“.

 

Accanto a questo interesse scientifico, sono due le questioni che ritornano continuamente, sebbene mai esplicitate del tutto, in questi saggi di Gadda: il problema del realismo e il problema della verità che, come si capisce, sono spesso connessi e tenuti insieme da una questione centrale che li travalica entrambi: la capacità, o quanto meno la possibilità, dell’opera d’arte di “ricreare la vita con i mezzi e dentro i termini propri del pensiero“. Il problema, per Gadda, sembra non essere tanto quello del rispecchiamento, della riproposizione, ma piuttosto della creazione di una determinata visione della realtà (di “pura visione” contrapposta alla “notazione realistica” si parla in un appassionato articolo su Gianna Manzini); lo stesso Balzac, il padre del realismo, si avvale “di modi meno o più che realistici”, “anche nel ricettacolo intimo della piazzaforte realistica”, dice Gadda, “vi è qualche cosa di simbolico e di analogico, di ‘caricato’, o comunque di spàstico“. 

In quest’ultimo elenco è possibile vedere anche un modo di procedere che è della scrittura dello stesso Gadda: e arriviamo, dunque, al secondo modo in cui è possibile leggere Divagazioni e garbuglio, come, cioè, una sorta di autoesegesi implicita, una “tendenza”, come ha scritto Roscioni, “a vedere nei libri e nei problemi (non soltanto letterari) altrui dei pretesti per ragionare dei propri. Perché anche quando indossa i panni dell’osservatore e del giudice, Gadda non può fare a meno di parlare di sé”. È un aspetto, questo, che emerge in particolare nelle riflessioni sul realismo, sulla lingua, e sul rapporto fra lingua e dialetto; basti pensare alla descrizione che si dà della scapigliatura milanese quasi in forma di un autoritratto della propria scrittura: “ove lingua e dialetto arrivino a contaminarsi in risultati bizzarri: certo umore: certo capriccio: il dolore: la delusione: la speranza: la malattia fisica: il male sociale”.

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E, infine, c’è la possibilità, in questa raccolta di Saggi dispersi, di leggere il libro come una serie di racconti e di prose liriche: anche al di là del manifesto contenuto autobiografico di alcuni pezzi (dalla difficoltà di vivere senza macchina a Roma, alla vita in Lombardia, ai rapporti d’amicizia), alcuni articoli, in verità, poco hanno della famigerata forma-saggio. Così inizia una specie di presentazione a Tre imperi…mancanti di Aldo Palazzeschi: “Aldo sogna e lavora, oggi, a via dei Redentoristi. È una via romana, del vecchio laberinto dell’Arco d’aa Ciambella, non è una via fiorentina. Dai terrazzi e dai tegoli, che apprismano e piramizzano il suo quinato piano, fiorite di ramerino e di gerani, svoli di rondini. A questa bona stagione, saettando sibilando incontro alla cupola di Sant’Andrea della Valle: si tuffano dentro l’umidore e l’ombre, a bacìo, schizzano di fuori nel sole”.

Un incipit che potrebbe benissimo aprire uno dei racconti de Gli accoppiamenti giudiziosi. E un altro scritto dedicato a Giorgio de Chirico utilizza suggestioni e allusioni ai quadri del pittore che si risolvono in una sorta di poemetto in prosa: “Da mattutine spiagge il tempo ha residuato l’immobilità della luce, l’angoscia della memoria. L’Egeo, dove si sono arenati i millenni, specchia la solitudine azzurra, cieli disabitati. Evitate da nera nave, le Cicladi sono riemerse nel sale, spentesi pompeiane tempeste; le circonfonde il fulgore del mattino, un fumo esala dal cuore della inapprodabile”.

Divagazioni e garbuglio, allora, non potrebbe essere un titolo più azzeccato per questa raccolta, la cui proteiformità non è un capriccio del “famigerato calligrafo“, ma una precisa forma del pensiero, un tentativo di elaborare una visione del mondo, un riflesso, così avvertiva una nota su Letteratura per l’imminente uscita de Gli anni (1943), “del vivere contro i suoi cieli piuttosto cupi”.

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