“Il volontario” è un romanzo fatto di mancanze. Per ogni codardia descritta, momenti in cui qualcosa è smarrito, c’è la possibilità di avvicinarsi al segreto del mondo, un segreto scavato nelle viscere, nelle profondità dell’umana bruttura – la guerra in Vietnam ne è emblema: Scibona (che ai tempi del suo esordio “La fine” è stato inserito nella lista dei 20 migliori scrittori Under 40 stilata dal New Yorker ed è entrato nella shortlist del National Book Award) sembra suggerirci che l’imprescindibile risiede molto più all’inferno che in paradiso, nelle scelte equivoche rispetto a quelle cristalline, negli atteggiamenti meschini più che in quelli onorevoli… – L’approfondimento

“Tutto è collegato, alla fine”.

(Don Delillo, Underworld, Giulio Einaudi editore, 1999, trad. it. Delfina Vezzoli)

Ne Il volontario (66thand2nd, traduzione di Michele Martino), Salvatore Scibona (nella foto di Carlos Ferguson, ndr) abbraccia l’epopea di tre generazioni di maschi americani in Iowa negli anni Cinquanta, in Vietnam negli anni Sessanta e a New York negli anni Settanta, per poi ricongiungersi in un futuro prossimo, punto in cui si apre il romanzo: incontriamo un bambino, Janis, abbandonato all’aeroporto di Amburgo nel 2010. 

Janis è il figlio di un soldato americano, Elroy Heflin, a sua volta figlio adottivo di Vollie-Tilly Frade – è lui, in definitiva, il volontario del titolo – soldato in Vietnam, arruolato per una missione fantasma, che riscrive la sua vita anni dopo con Louisa e il piccolo Elroy in una comune hippie nel New Mexico. Al di là delle loro esistenze singole e degli avvenimenti che accadono, Vollie, Elroy e Janis sono l’evoluzione della medesima persona, desiderosa di scappare, di rendersi invisibile per espiare una pena che scopriamo ereditaria: alcuni peccati si tramandano senza via di scampo e ci sono errori che i figli sono condannati a fare, esattamente come i padri.

Le spirali attorno cui si evolvono le vite raccontate sono fatte della medesima sostanza e ogni luogo narrato (Queens, New Mexico, Germania, Lettonia e Afghanistan) è abitato da violenza, perdita, abbandono e rimorso. 

Salvatore Scibona, Il Volontario

Da Vollie a Janis, passando per tutte le pagine che si ascrivono ora a romanzo familiare, ora a spy story, ora a storia di guerra, Il volontario è un romanzo fatto di mancanze. Per ogni codardia descritta, momenti in cui qualcosa è smarrito, c’è la possibilità di avvicinarsi al segreto del mondo, un segreto scavato nelle viscere, nelle profondità dell’umana bruttura – la guerra in Vietnam ne è emblema: Scibona sembra suggerirci che l’imprescindibile risiede molto più all’inferno che in paradiso, nelle scelte equivoche rispetto a quelle cristalline, negli atteggiamenti meschini più che in quelli onorevoli. 

La sostanza de Il volontario non sta nel descrivere l’epopea del singolo in cerca di qualcosa, ma l’epica della perdita di ogni cosa, viatico per arrivare a una profonda comprensione del mondo. E non a caso il romanzo si apre proprio con una perdita, quella più atroce, in cui un bambino si ritrova da solo, abbandonato. Quel bambino è Janis e chi lo ha abbandonato è Elroy, un figlio di nessuno preso in carico da una donna e dal suo uomo, con cui vive per qualche tempo: Vollie. 

Questa traccia letteraria sembrerebbe in direzione contraria a quella intrapresa nel romanzo d’esordio, La fine (66thand2nd, 2011; traduzione italiana di Beniamino Ambrosi), dove al centro della narrazione c’era una comunità italo-americana di Cleveland la cui storia partiva dal 1953: il tempo e lo spazio, che si allungavano nel passato sino alla fine dell’Ottocento, così come i protagonisti, erano perfettamente visibili e circostanziati. Scibona dichiaratamente si ispirava alla sua bisnonna italiana, alle vicende degli immigrati e alle radici di una specifica generazione di italo-americani. 

La fine ragionava sui singoli che tratteggiavano la condizione di una minoranza intera, di un popolo, delineava un terreno socio-culturale specifico: raccontava da dove iniziava la storia. Ne Il volontario, Scibona rincorre il futuro, prosegue nel tempo e idealmente l’epopea umana cominciata ne La fine. Rocco, Costanza, Lina, Enzo e Ciccio sono gli antenati di Vollie, Elroy e Janis, ma non è una questione di famiglia, è una questione umana. L’eredità che i tre si portano dietro riguarda l’umana condizione e se la trama e lo spazio hanno una struttura propria (dall’Ohio all’Iowa; dal viaggio negli Stati Uniti al viaggio per il Mondo) nei due romanzi, l’essere umano si somiglia.

Il racconto ne Il volontario si amplifica, si ingrandisce, esplodendo: i personaggi de La fine hanno compreso una cosa fondamentale che Ciccio in particolare, l’adolescente che vuole aprirsi al mondo, ci fa intuire: la fine non esiste, perché tendiamo sempre a un desiderio che sta altrove, a volere ciò che non abbiamo – un ottimista qualcosa che non ha ancora, un pessimista ciò che non avrà mai – e non c’è modo di sfuggirne.

Ne La fine Scibona era riuscito a raccontare la storia di quei protagonisti come fosse quella di chiunque, e aveva preparato il terreno alla narrazione dei nessuno ne Il volontario. La sua lirica attraversa questi due poli e li sfilaccia per poi ricongiungerli sempre: il “chiunque” da un lato e il “nessuno” dall’altro, in ogni caso vinti.

Ne Il volontario, il desiderio di arrivare è terminato, abitare il momento presente è più importante, cercare di ritagliarsi un’esistenza funzionante è l’unica cosa che conta; i personaggi si muovono conoscendo già cosa accadrà e dunque tentano continuamente di fuggire. A nulla valgono i rapporti familiari, i figli, l’amore, le relazioni che instaurano, perché l’approdo è già scritto e non si può cancellare. 

La narrazione zooma ora dentro ora fuori dalla Storia, dandoci l’idea di assistere a un movimento ora pieno ora vuoto, in cui i personaggi cercano di costruire qualcosa – un’occasione, un lavoro, una famiglia – ma poi rinunciano per diventare nessuno. Scibona ci dà l’opportunità di vederci ma anche di nasconderci, esattamente come le figure che costruisce: ci chiede un esercizio di esemplificazione di noi stessi in cui, ogni volta in cui torniamo indietro e lo zoom si chiude, anche noi abbiamo perso qualcosa, costretti dall’inevitabile: una forza misteriosa e oscura che guida i destini e gli eventi e può essere percepita ma mai vista in completezza; possiamo osservarla solo nelle conseguenze, puntuali nelle pagine successive, come una solida tradizione di famiglia. 

La voce dell’autore, a sua volta, si mostra e si nasconde, e dice molto di ciò che vorrebbe che fossimo come lettori rispetto all’umana consistenza, prima che esistenza: testimoni imparziali. In una sua recente riflessione, pubblicata dal New York Times e tradotta da Fabio Galimberti per La Repubblica, Salvatore Scibona scrive: “In quest’epoca di boom delle recriminazioni, abbiamo bisogno di un metodo che ci consenta di riservare la nostra indignazione per quei casi che valgono la pena, che meritano il tributo che impone agli altri e a noi stessi. Per il bene sia delle persone ingiustamente additate al pubblico ludibrio sia della nostra salute mentale, potremmo cercare di usare un’alternativa al giudizio. Quest’alternativa possiamo trovarla nella letteratura, a mio parere. Sto parlando di storie che prendono una persona ordinaria e la osservano, per ore e anni, dentro e fuori, e si sforzano di essere, se non obiettive, almeno equanimi”.

 

GLI APPUNTAMENTI IN ITALIA – Domenica 8 settembre l’autore sarà ospite del Festivaletteratura di Mantova (qui i dettagli sui due incontri), e mercoledì 11 settembre sarà al Circolo dei lettori di Torino per Aspettando il Salone.

Fotografia header: Il volontario - Salvatore Scibona - foto di Carlos Ferguson

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