“Il lavoro dello scrittore è davvero solitario, e non ha nulla di «donné». Un pittore parte inizialmente da quattro linee, i quattro lati della tela, e ne crea una quinta. Lo scrittore muove dal nulla – fissando l’abisso del linguaggio, dove occorre creare ogni frase e tentare ogni sequenza di parole, per quanto brutta sia – e ci deve trovare l’unica stringa che funzioni, con l’ulteriore tormento che, sebbene a volte le sequenze di suoni possano diventare belle, di per se stesse le parole non lo sono mai come possono esserlo invece le linee…”. Su ilLibraio.it un estratto da “Io, lei, Manhattan” di Adam Gopnik, in cui non mancano riflessioni sulla figura dell’autore e su quella dell’editor

Dal 1986 Adam Gopnik è una delle firme più note del New Yorker. Ha pubblicato diversi libri (in Italia pubblicati da Guanda, tra cui Una casa a New York, Da Parigi alla luna, In principio era la tavola, Il sogno di una vita e L’invenzione dell’inverno) e ha vinto tre volte il National Magazine Award for Essays and for Criticism e il George Polk Award for Magazine Reporting.

Nel suo ultimo libro, l’autobiografico (e imperdibile) Io, lei, Manhattan (traduzione di Isabella C. Blum), protagonisti sono New York, la sua vita culturale, e gli anni ’80. Proprio all’inizio del decennio Gopnik arrivò nella Grande Mela, dal Canada, con la sua futura moglie.

Nel libro Adam e Martha partono all’esplorazione di se stessi, del loro matrimonio e della loro nuova città, luogo ideale per mettere a frutto ambizione e talento. Quello di Adam, come lui stesso scoprirà non senza un certo stupore, sta nella capacità di mettere in fila le parole e di spaziare dalla cultura alta a quella bassa, abbandonando il puntiglioso “ma” del dibattito accademico per un tollerante “e” in grado di accogliere con sguardo curioso tutto ciò che la città ha da offrirgli.

E delle sue doti dà prova anche nei resoconti dei suoi comici esordi nel mondo lavorativo presenti in Io, lei, Manhattan, da un impiego alla Frick Library a un altro al MoMA fino ad approdare alla rivista GQ, dove la totale mancanza di requisiti lo rende il candidato ideale.

Ogni passaggio è occasione per gli incontri più disparati, dal fotografo Richard Avedon, che diventa mentore e amico fraterno, a un artista di strada deciso a rifare Van Gogh meglio di Vincent, dall’ineffabile star dell’arte consumistica Jeff Koons a un derattizzatore filosofo alle prese con la fauna sotterranea di SoHo. E il racconto cede volentieri il passo alla digressione…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto da Io, lei, Manhattan

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Poiché mi piacevano il gergo e le piccole incombenze del lavoro editoriale – così diversi da quelli del giornalismo di moda e della critica d’arte – ebbi anch’io un minuscolo ruolo in quel piccolo boom editoriale, scrivendo i risvolti dei libri degli autori più giovani. Nella mercificazione della letteratura c’era qualcosa di magico che ne faceva un fenomeno molto più felice della mercificazione dell’arte, in larga misura perché si sperava davvero che la letteratura diventasse un oggetto di vendita. Mentre il mondo dell’arte temeva che l’oggetto uscisse degradato dalla riproduzione, in editoria l’idea d’una riproduzione senza limiti era una fantasia assolutamente improbabile. Il terribile destino dell’arte immaginato nel fondamentale saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – l’oggetto d’arte spogliato della sua aura e trasformato in infiniti simulacri di se stesso – era esattamente quello che volevi accadesse a un libro.

Venivano infusi molti più sogni, desideri e speranze nel lavorio della redazione a midtown di quanti ve ne fossero nel Village a SoHo, dove una volta approdato sulla parete di una galleria, di certo il quadro sarebbe stato venduto a qualcuno. Bastava che qualcuno lo vedesse, e sarebbe diventato un oggetto in vendita, un oggetto del desiderio. Nel mondo del libro, i testi sui risvolti di copertina, i testi per i cataloghi, le copie inviate ai revisori e per le presentazioni riuscivano a sovrapporre una patina di ottimismo su un processo che, statisticamente, avrebbe quasi certamente deluso tutte le parti coinvolte. Nessuno desidera davvero un libro nel modo in cui desidera un quadro. Se si riusciva a lanciare un libro come bene di consumo, era un evento sensazionale. Se non ci si riusciva con un quadro, era un mistero, e cambiavi gallerista. Se il libro andava male, ti limitavi a sperare che qualcuno te ne facesse pubblicare un altro.

A me piaceva il lavoro di editing, anche se non sono mai stato molto bravo a farlo: troppo assorbito alle mie frasi per poter sovrintendere sul serio a quelle altrui con la cura che meritavano. Gli editor veramente grandi sono, nel profondo, spiriti ascetici. Amano l’abnegazione associata al lavoro di editing e benché di tanto in tanto possano scrivere qualcosa di proprio, preferiscono consacrarsi al celibato del non scrivere. E naturalmente, da quella loro astinenza traggono potere: non scrivendo pur sapendo tutto sulla scrittura, ottengono esattamente lo stesso potere detenuto dai grandi monaci. Sono figure terrene, ma non appartengono a questo mondo. I monaci cuociono il pane e fanno il formaggio, ne annusano gli odori, ma alla fine sono lì per servire il cibo, non per mangiarlo.

Io non avevo allora, né ho adesso, alcuna inclinazione per quel genere di sacrificio. L’editing, però, è anche una forma di accudimento, in particolare quando i tuoi «pazienti» sono più anziani, come lo erano molti dei miei; per me fu una sorta di percorso di crescita accelerato. Divenni l’editor di scrittori anziani e di grande prestigio come Wilfrid Sheed, critico insigne e fine romanziere satirico, e in seguito anche di Whitney Balliett, l’impareggiabile narratore-poeta della musica americana, e compresi che davo il mio contributo – nonostante le differenze di età e levatura (e malgrado riuscissi a malapena a offrire una parola utile a proposito delle loro frasi già ben rifinite, tutto concentrato com’ero a inseguire le mie) – anche solo indossando una maschera da editor, in modo non meno assurdo che se avessi inforcato occhiali e baffi alla Groucho. Se sei l’oggetto di un transfert da parte d’un maestro settantenne, assumi i modi di un uomo più anziano. E poiché assumerli è praticamente l’unico sistema per impararli, la cosa funziona. Ero un adulto in virtù del mio essere editor, anche perché – corollario importante – tutti gli scrittori sono bambini.

Come per moltissimi ruoli, impersonare diventa essere. Dover essere forte per loro mi rese più forte di quanto non fossi. Il legame tra lo scrittore e l’editor è assurdo – e tuttavia intenso come nessun legame tra artista e critico, e meno che mai tra artista e gallerista, potrà mai essere. Quello a cui puntano tutti gli psicoanalisti – quel «transfert» grazie al quale il paziente attribuisce al terapeuta sconfinate riserve di saggezza, disponibilità parentale e lungimirante attenzione – gli editor lo ottengono con indecente facilità grazie all’ansia degli scrittori.

Era un promemoria di quello che il mondo dell’arte mi aveva già insegnato, se soltanto avessi prestato attenzione e avessi applicato le sue lezioni a un contesto più ampio: in campo artistico, tutto ciò che appare come uno scambio formale, in realtà è psicologico. La gente crea quadri, non «periodi». Solo in seconda battuta gli editor danno forma alle frasi o addirittura struttura ai libri; più spesso, hanno la funzione di padri surrogati che rincuorano i loro trovatelli – sovente anziani e adottati in strane circostanze – assicurandogli che riusciranno ad arrampicarsi fino in cima al castello al parco giochi. Perfino gli interventi più famosi – come quello di Gordon Lish sui racconti di Raymond Carver, in cui intere pagine furono tagliate o riscritte e i finali reinventati – sono possibili non perché allo scrittore il rifacimento appaia migliore («a nessun buono scrittore piace mai veramente subire l’editing» era l’enfatico aforisma di uno dei più grandi) ma perché il transfert ha avuto luogo in modo così completo che lo scrittore, senza l’approvazione paterna sottintesa dall’interferenza, si sente perduto. Se non mi cambia niente, vuol dire che non gliene importa, pensa lo scrittore. L’opera può trarre beneficio dal lavoro di editing – lavoro che prendendo il materiale denso e sovraccarico lo semplifica al punto che, come Shakespeare non disse mai, passaggi lenti e non troppo brillanti approdano infine alla chiarezza – ma lo scambio è innescato più dalla scena primaria vissuta dall’autore che non dalle sue ambizioni per il «prodotto» finito.

Poi, capii anche un’altra cosa. La vita degli scrittori non era quella di numi tutelari, come tanto spesso era quella degli artisti. Richard Serra poteva essere un eroe collerico, Jeff Koons uno strano santo locale, ma agli scrittori mancava quel genere di incisività. In genere più soli e più tristi, sopportavano lunghi periodi di isolamento assoluto – diverso da quello del pittore nel suo atelier, quasi sempre intensamente sociale nel prima e nel dopo: agli esordi con i compagni di studio e in seguito con gli assistenti (Per non parlare della presenza sempre consolatoria dei materiali, belli di per sé, che devono essere acquistati, tesi, rinforzati, appuntiti).

Il lavoro dello scrittore è davvero solitario, e non ha nulla di «donné». Un pittore parte inizialmente da quattro linee, i quattro lati della tela, e ne crea una quinta. Lo scrittore muove dal nulla – fissando l’abisso del linguaggio, dove occorre creare ogni frase e tentare ogni sequenza di parole, per quanto brutta sia – e ci deve trovare l’unica stringa che funzioni, con l’ulteriore tormento che, sebbene a volte le sequenze di suoni possano diventare belle, di per se stesse le parole non lo sono mai come possono esserlo invece le linee. Di conseguenza, gli scrittori sono soli anche quando sono in compagnia, intenti a girare e rigirare frasi nella propria testa, mentre gli artisti non possono fare altrettanto con le immagini. Gli artisti elaborano le loro immagini, naturalmente, e si precipitano nel loro atelier per proseguire, ma l’immagine esiste comunque fuori dalla loro testa. Le arti visive, malgrado tutta la loro occulta obliquità, sono reali. Metà dell’effetto di un oggetto d’arte sta nella sua pura realtà oggettiva. È grande, scuro, levigato e denso; è piccolo, lucente e misterioso. L’oggetto esiste – qui e ora – anche quando cerca di rappresentare una scena o un luogo. La scrittura, per quanto sia intensa e accurata, ha la natura d’un riflesso. Non ha alcuna vita materiale, al di fuori dei materiali di cui s’avvale. I colpi di pennello sono al tempo stesso ciò che indicano e ciò che sono. Le parole sono soltanto ciò che significano; ridotte a meri suoni, diventano prive di senso. Noi elogiamo il bel suono di certe parole o di certe espressioni – «pomeriggio d’estate», «musica di Natale» – ma in realtà, spogliate dei loro referenti, non sono che borbottii come tanti altri.

In questo semplice senso, le frasi dello scrittore non hanno alcuna esistenza, e la loro collocazione sulla pagina non è che un luogo illusorio dove sostare prima di precipitarsi dalla testa dello scrittore a quella di un lettore, sempre che là fuori ce ne sia uno. L’opera dello scrittore davvero non esiste fuori della testa del lettore, ed è raro che nel mondo immediatamente a contatto con lo scrittore ci siano lettori. Certo, gridiamo delle frasi ai nostri coniugi, i quali immancabilmente fingono di ascoltarle. Private del loro contesto, però, le frasi che gridiamo loro hanno poco senso: sono un po’ come il gatto di quei diagrammi quantistici, esistono soltanto quando sono percepite. Prima di allora, non fanno che saltare qua e là nella testa dello scrittore. Là dentro non possono essere abbandonate o posate nemmeno per un istante, come un neonato con le coliche (forse è per questo che agli scrittori piace scrivere dell’allevare figli: già sanno com’è avere la responsabilità di qualcuno che non dorme mai e concede un sorriso ogni tanto). «Solitario» per un pittore significa meditabondo; per uno scrittore vuol dire veramente solo.

(continua in libreria…)

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