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Gli scrittori di ieri e di oggi e la passione per la fotografia

Nelle scorse settimane Maurizio Ferraris e Giuseppe Catozzella si interrogavano sulle pagine di Repubblica su come la parola e la letteratura sembrano aver abdicato al ruolo di raccontare della realtà e che questo compito sia ora affidato alle immagini. Si pensi all’impatto che hanno avuto le foto del piccolo Aylan Kurdi e a quella che l’artista cinese Ai Weiwei gli ha dedicato ritraendo il suo stesso corpo al posto di quello del bambino siriano. L’arte visiva sembra la più adatta a raccogliere gli shock che stiamo vivendo e, parlando direttamente agli occhi, arriva ai sentimenti e all’empatia senza necessità di commenti, senza bisogno di parole.

Oggi come agli albori, questa peculiarità della fotografia ha affascinato diversi scrittori che l’hanno considerata una forma espressiva ancella a quella narrativa. La ricerca del “vero” per Verga è passata infatti anche attraverso centinaia di scatti di pescatori e contadini. Lo stesso è avvenuto per Zola e la sua Parigi fin de siècle e per Strindberg e i suoi “ritratti psicologici”. L’analisi psicologica e quella immaginifica sono alla base delle foto di Lewis Carroll la cui Alice, prima ancora di diventare la protagonista del suo romanzo più famoso, è stata una delle tante piccole muse che hanno posato davanti al suo obiettivo. O ancora i reportage, o come lui stesso li chiamava “i documenti umani” di quello che Davide Sapienza nel volume edito da Contrasto, Le strade dell’uomo, definisce “il primo vero storyteller”, Jack London. Passando per gli scatti “degli hipster dalla faccia d’angelo” di Allen Ginsberg, dove i protagonisti della Beat Generation flirtano con la camera in un continuo rimando tra vita e letteratura. Venendo ai giorni nostri due scrittori come Alessandro Baricco e Silvio Perrella hanno deciso di affiancare il loro “doppio sguardo” di autori e amanti della fotografia per raccontare i propri viaggi per il mondo, il primo, e attraverso la sua città adottiva, Napoli, il secondo.

In questo inarrestabile gioco di specchi tra parola e immagine non è un caso che uno dei più stimati  fotografi di sempre, Henri Cartier Bresson, in un’intervista concessa a Sheila Turner-Seed, si avvalga di una similitudine e di una citazione tratte dalla letteratura per spiegare l’essenza della propria arte: “Quando si fotografa non si cerca di presentare un’argomentazione o dimostrare una tesi. Non c’è niente da dimostrare. La fotografia viene da sola. Non è un mezzo di propaganda, ma un modo di gridare quello che senti. Si può paragonare alla differenza tra un libello di propaganda e un romanzo. Il romanzo deve passare per tutti i canali nervosi, per l’immaginazione. Ha molta più forza di un pamphlet a cui si getta un’occhiata per poi buttarlo via. E la poesia è l’essenza di tutto […]. Amo scattare. Essere presente. È come dire: “Sì! Sì! Sì!”, come le ultime tre parole dell’Ulisse di Joyce”.

Jack London

Oltre 12mila fotografie in soli sedici anni. Il “lupo”  – così amava farsi chiamare dagli amici – Jack London era vorace in tutto: ha divorato ogni istante, vivendo quelle avventure che ha poi trasfigurato sulla pagina bianca, conquistando il successo e divenendo uno degli scrittori più pagati di sempre. Eppure non gli è bastato ed esattamente un secolo fa moriva a soli 40 anni. Quel “richiamo” verso la natura selvaggia, ma anche nei confronti dei più deboli lo ha reso un curioso indagatore della civiltà umana attraverso ogni mezzo: la narrativa, il giornalismo, la fotografia. E proprio a quest’ultima sua imponente passione è dedicato il volume Le strade dell’uomo, edito da Contrasto da un’idea di Alessia Tagliaventi. Nella sua prefazione Davide Sapienza definisce l’autore di Martin Eden “il primo vero storyteller. Non era un dilettante: sapeva cosa faceva e come farlo. Aveva studiato la nuova arte al punto da chiamare le sue immagini documenti umani, che per lui valevano tanto quanto i romanzi, i racconti, i reportage, gli editoriali”. Alternando un’ampia selezione di fotografie a brani tratti dai suoi capolavori, Alessia Tagliaventi ricostruisce alcune tappe fondamentali in cui London diventa testimone di grandi eventi del suo tempo, dai poveri e disperati di Londra raccontati ne Il popolo dell’abisso (1903), alla guerra russo-giapponese, dal terremoto di San Francisco (1906) e all’incredibile viaggio dello Snark, l’imbarcazione protagonista di una piccola odissea durata quindici mesi, mesi in cui entrò a contatto con gli abitanti delle Isole Marchesi e non solo. “Per lui fotografare era un’esigenza”, prosegue Sapienza, “un modo per esprimere attraverso le immagini le sue convinzioni socialiste con grande dignità e senza alcun facile pietismo, denunciando le ingiustizie ma sempre fermo nell’affermare: ‘Preferisco vivere a scrivere’”.

Uomini in fila di fronte all’esercito della salvezza © Henry E. Huntington Library


Jack London, Appartamenti crollati a San Francisco, 1906

Jack London – Abitanti di Nuku Hiva – Isole Marchesi 1907 – Henry E. Huntington Library

Jack London

Jack London, Londra, Henry E. Huntington Library

Giovanni Verga

“No, non sono sfuggito al contagio fotografico e vi confesso che questa della camera nera è una mia segreta mania”. Parola di Giovanni Verga. Della passione del padre del verismo per la “fatale invenzione” siamo venuti a conoscenza solo nel 1966 quando, nell’abitazione dello scrittore nel centro di Catania, furono ritrovati da Giovanni Garra Agosta 448 negativi fotografici, impressi da Verga a partire dal 1878.  Si tratta dei luoghi tipici della Sicilia verghiana, con alcune incursioni nei laghi lombardi e a Bormio, in cui hanno un ruolo da protagonisti pescatori, contadini, camerieri e familiari colti nei gesti della loro vita quotidiana. Un paesaggio umano vero, che ci restituisce, nelle posture e nelle tecniche stesse di ripresa, molto del gusto estetico e degli usi del tempo oltre che del mondo letterario dell’autore dei Malavoglia. La preparazione dei suoi scritti era infatti spesso accompagnata dagli scatti fatti per le strade o nei campi. Una “mania” condivisa con altri due amici scrittori, Capuana e De Roberto, la “triade di Catania”, quella del cosiddetto “verismo in bianco e nero”. Come se il “mondo degli umili e dei vinti” trasparisse in maniera ancora più nitida e potente attraverso l’immagine ottica. Se Capuana aveva addirittura ripreso la madre che stava per morire e poi ancora dopo la fine, rivestita in un tipico costume siciliano, gli scatti di Verga non si spingono così in là:  sono caratterizzati da sfocature, inquadrature sbilanciate, “alonature” ma comunque intense, intimamente a contatto con il mondo ripreso.

La zia, foto di Giovanni Verga

Catania, foto di Giovanni Verga

Émile Zola

Émile Zola per preparare i suoi romanzi si documentava minuziosamente e, grazie anche alla sua macchina fotografica, si è guadagnato il titolo di scrittore “etnografo contemporaneo”. Il padre del naturalismo francese amava vagare per la Parigi fin de siécle armato della propria fotocamera per raccogliere immagini e informazioni sui luoghi in cui avrebbe ambientato le proprie storie: dai grandi magazzini ai quartieri residenziali, dalla Borsa alle miniere fino alla stazione ferroviaria e alle strade popolari abitate dalle cocotte. Non solo ambienti, ma persone: banchieri, commessi, uomini ubriachi, borghesi, clienti delle più note mantenute. Zola era un “sociologo delle professioni” che ha restituito, con un’autentica e sfaccettata testimonianza, anche visiva, la società francese di fine Ottocento. Riccardo Reim nel suo La Parigi di Zola (Editori Riuniti, 2001) ha raccolto questo immenso materiale iconografico, oltre seicento fotografie, accompagnandole con alcuni estratti dai suoi romanzi per dimostrare la contiguità tra indagine letteraria e fotografica, propria di uno scrittore che con ogni mezzo voleva raccontare la realtà “nuda e cruda”.

Émile Zola fotografo

Parigi, foto di Émile Zola

Lewis Carroll

È lei Alice Liddell, la bambina a cui molto probabilmente il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, si ispirò per il suo Alice nel Paese delle meraviglie. Una delle tante bambine che lo scrittore, insegnante di matematica, ebbe modo di ritrarre con la sua macchina fotografica. Una autentica passione la sua, per il mezzo e per il soggetto, al punto da aver indotto molti a considerarla al limite della patologia, qualcosa di più di una sublimazione di fantasie a sfondo sessuale. Nel volume Lewis Carroll, scrittore e fotografo, edito da Postcart, Diego Mormorio ricostruisce la parabola artistica e figurativa del grande autore. Ciò che affascinava il reverendo era il lato compositivo della fotografia: il gusto per la messa in scena e il bilanciamento dei pieni e dei vuoti propri della pittura ma anche del teatro, altra arte da cui Carroll era attratto ma che non si addiceva a un uomo di chiesa. Così come in realtà non si addiceva la sua predilezione per ragazzine e bambini, di cui lo incantavano l’abilità astrattiva, il rapporto con la fantasia e con la natura. Una rielaborazione del mondo dell’inconscio, di sospensione fra sogno e realtà che si perde drammaticamente nell’età adulta. “Un uomo che si divertiva soprattutto con la matematica e le bambine, per le quali scriveva favole e faceva fotografie” scrive Mormorio, per poi aggiungere che favole e fotografie per lui avevano la stessa sostanza e che l’una non poteva prescindere dall’altra: i suoi racconti sono dotati di una qualità immaginifica che è una cosa sola con la letterarietà delle sue fotografie.

Allen Ginsberg

Persino Bob Dylan era un estimatore delle sue fotografie. Una delle icone della Beat Generation, lo scrittore statunitense Allen Ginsberg, fu anche poeta delle immagini. Immagini rigorosamente in bianco e nero, per lo più scattate negli anni ’50 con una Kodak Retina rimediata a un banco dei pegni. Raccolte in una mostra e in un volume intitolati Beat Memories, queste foto ritraggono Ginsberg accanto agli amici Willian S. Burroughs, Jack Kerouac, Neal Cassady e Lawrence Ferlinghetti e sono accompagnate da didascalie scarabocchiate sotto ogni immagine. Un esperimento tra fotografia e parola che dà vita a una composizione unica nel suo genere. Si tratta per lo più di scatti ispirati dalla complicità con i modelli ritratti, i compagni beat, in cui il lato estetico lascia il posto a quello più familiare. Non mancano riferimenti autobiografici, come nell’immagine che ritrae Ginsberg nudo che si appoggia sul bordo della vasca del suo appartamento di New York mentre si fotografa allo specchio. O ancora lo scatto fatto a Kerouac di profilo mentre urla: citazione dell’opera forse più nota del genio di Newark, “Howl” (L’urlo) in cui compare la definizione “hipsters dal capo d’angelo”. Definizione talmente calzante da essere usata come titolo della mostra londinese dedicata qualche anno fa al Ginsberg fotografo.

Kerouac fotografato da Ginsberg

August Strindberg

“Io cerco la verità nell’arte della fotografia, così intensamente come la cerco in molti altri campi”. Accanto al teatro e alla pittura, il drammaturgo svedese coltivò una profonda passione per le immagini. In un primo tempo credette di aver trovato l’incarnazione del “vero” in una serie di autoritratti e di fotografie di famiglia, realizzate nel 1886 nella stazione termale di Gersau in Svizzera. In questi scatti, che sembrano rispondere ad alcuni suoi quesiti autobiografici, Strindberg assume una molteplicità di ruoli: dallo scrittore al giardiniere, dal padre di famiglia al rivoluzionario. Il suo modo di fotografare, a partire dal 1890 diventa più sperimentale e sembra echeggiare le sue ricerche sulle scienze naturali sull’occultismo. La verità non risiede più nella semplice riproduzione meccanica di un’apparenza, ma nella comprensione più profonda e radicata del “vero”. L’autore de La signorina Julie tenta persino di raffigurare le stelle del firmamento posando semplicemente la lastra fotografica sotto il cielo notturno, senza apparecchio né obiettivo né lenti. Alcuni anni dopo, Strindberg sviluppa una teoria, quella ribattezzata del “ritratto psicologico”, “fotografie dell’anima” che svelano le peculiarità psicologiche del modello. “Non mi importa del mio aspetto, io voglio che le persone vedano la mia anima e che essa si manifesti in queste fotografie molto meglio che in tante altre” scrive.

August Strindberg – Autoritratto in compagnia di bambini © musée Nordique

Silvio Perrella

Due linguaggi, due tipi di scatto, uno fotografico e l’altro verbale per cogliere bellezza e contraddizioni di una città come Napoli. Con Doppio scatto (Bompiani, 2015) Silvio Perrella, lo scrittore palermitano trasferitosi nel capoluogo partenopeo, si muove per le strade armato di block notes e della sua giberna, una piccola macchina fotografica in grado di sparire in una tasca, definita “un deposito di appunti”. L’autore guarda e cammina e intanto scopre scorci, scale, cartelloni pubblicitari e murales, paesaggi illuminati da una luce rarefatta, memorie. E a volte, come scrive nell’incipit, lo sguardo è influenzato dalla letteratura e la fotografia non fa che inseguirlo.

Il primo scatto visivo non è completo se non viene bissato da un secondo scatto verbale. Sono cresciuto alla scuola calviniana dello sguardo. Palomar mi ha guidato per lungo tempo, le sue esitazioni, le sue malinconie, ma anche la snellezza e precisione della frase che scatta come la lingua del geco, pronto a ingurgitare gli insetti di passaggio, mi sono familiari. Più che fare a gara con lo scatto decisivo, lo scatto verbale lo completa. E a volte se ne discosta per prendere strade tutte sue. Ma la stessa cosa capita con le immagini fotografiche. A volte mi fermo di botto al centro di una strada (rischiando di farmi investire da un veicolo o da un altro passante) perché ho visto “qualcosa” e quel qualcosa viene dalla scrittura. Come avvenuto qualche mattina fa, scendendo le scale del Petraio. Quelle foglioline che nascono spontaneamente tra mattone e mattone di tufo, quasi sfiorando il vicino corrimano corroso dal tempo, non avrebbero attirato la mia attenzione se non avessi letto Bartleby lo scrivano di Melville. È nelle pagine finali di quel racconto potente che “ho visto” per la prima volta queste foglioline.

foto di Silvio Perrella

Alessandro Baricco

Un’iniziativa promossa lo scorso anno da Repubblica ha visto lo scrittore-affabulatore protagonista di un racconto inedito fatto della selezione di cento immagini fotografiche, scattate in diversi anni durante i suoi viaggi, accompagnate da brevi scritti, descrizioni, didascalie o spesso semplici suggestioni. Con i miei occhi. Il mondo raccontato da uno scrittore in poche parole e con cento immagini questo il titolo del progetto. Ogni giorno il quotidiano, allora diretto da Ezio Mauro, pubblicava questo album nato senza un apparente criterio, ricostruito successivamente. La passione per la fotografia di Baricco non è nuova: nel 2014 ha dedicato un lungo reportage alla mostra realizzata a Tours su Vivian Maier, la bambinaia-fotografa nata nel 1926 a New York scoperta solo qualche anno fa, nel 2007, e oggetto di una fortunata esposizione allo Spazio Forma Meravigli di Milano, appena conclusasi.

Ouverture

Mi preme ricordare che la disposizione degli animali in un pascolo è una forma d’arte, benché non sia chiaro a chi se ne possa attribuire la paternità. Secondo me i più bravi al mondo sono, comunque, quelli che dispongono gli ovini nei pascoli del Galles: lì ho visto dei veri capolavori.

La rassicurante ripetizione delle forme

Questa salvifica circostanza per cui nel caos dell’esperienza lo sguardo si incarica di ricordarci che alla fine tutto è riportabile alla gentile permanenza di alcune, poche, forme, disegnate bene. Da sinistra a destra, un campo in Normandia, una torre in Inghilterra e un tetto in Vietnam.

(immagini tratte da Repubblica)

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