Ne discutono Stefania Bertola e Paola Mastrocola autrice di Palline di pane ISBN:8882462412

Cara Stefania, dicono: letteratura femminile, al femminile, delle donne… Quando sento dire di un libro: va bene per le donne, provo una singolare tristezza. E per gli uomini no? penso. Io non vorrei scrivere per le donne. Ma neanche per gli uomini. Io vorrei scrivere per un lettore come dire? asessuato… Mi spiego meglio: tra le tante bellezze dello scrivere (come del leggere, peraltro) c’è sicuramente il fatto che, scrivendo (e leggendo), noi perdiamo i contorni, ovvero la forma di qualsiasi nostra possibile definizione: perdiamo ad esempio il nostro ruolo sociale, la nostra identità, e anche la nostra appartenenza ad un genere, maschile, femminile, neutro: diventiamo soltanto lettori, esseri non definiti da altro se non dall’azione che stiamo compiendo, sia essa leggere o scrivere. Non ti pare bello? Non ti ho mai detto che sto leggendo il tuo “Ne parliamo a cena”. Lo trovo esilarante. Drammaticamente esilarante. Certo lì c’è un mondo di donne. E tu che scrivi sei una donna. Ma… Tu scrivi per le donne? E ti senti una donna mentre scrivi?

Cara Paola, sì che mi sento una donna mentre scrivo. E anche mentre leggo. Sono d’accordo con te che sia scrivendo che leggendo si cambia età, luogo, status sociale, carattere perfino, o inclinazioni personali, ma il sesso, quello ti resta spalmato addosso sempre. O almeno, per me è così. Però sento, come tua lettrice, che per te è diverso. Sia in La gallina volante che in Palline di pane che ho appena iniziato, hai l’impressione di una scrittura libera dal genere. Come mai? Non lo so. Posso azzardare un’ipotesi: la tua scrittura parte dal pensiero, dalle insofferenze, dalle convinzioni profonde, da un nocciolo dentro di noi che è veramente del tutto indipendente dal sesso e dal genere. Per me è diverso: la mia scrittura parte dal piacere di appartenere a questo club esclusivo: le donne! Però, ti lancio un altro tema: sai dove la scrittura è davvero femminile o maschile, scommetto anche per te? Nelle interruzioni. Sia gli scrittori che le scrittrici, mentre sono lì che riempiono quaderni o schermate, ogni tanto si interrompono. Perché? I maschi si interrompono perché hanno sonno, perché devono andare a tenere una lezione all’Università, perché hanno un appuntamento con una Velina, perché devono andare a ritirare la macchina nuova. E le donne? Perché devono girare il sugo, stirare la felpa rosa della figlia , andare a trovare la zia che si è schiantata il femore, chiamare la povera Anna che il fidanzato l’ha piantata, stendere il bucato… Quindi: è l’interruzione che dà femminilità alla scrittura?

Come hai ragione, Stefania! L’interruzione è sacra per me. Fare altro, deviare, andar via: basilare per poter scrivere. Gli uomini no, non mi sembra che lo facciano. O almeno gli uomini che conosco io: non s’interrompono mai. Credono nella CONCENTRAZIONE ad oltranza, stanno “immersi” in quel che fanno, bene attenti a non concedersi strappi. Forse il loro è un pensiero monolitico, un pezzo unico fatto di pietra non scalfibile, non so. Noi siamo più “leggere”, più frantumate. Più ventose, direi. Ci lasciamo attraversare. Ma parlerei, più che di interruzioni, di distrazioni. Farei un vero e proprio elogio della DISTRAZIONE. “Distrarsi”, cioè sentirsi tirati altrove e andare volutamente da un’altra parte. Anche a costo di perdere i pensieri, di disperderli, di dissiparli. Ecco, forse noi abbiamo un senso della DISSIPAZIONE che gli uomini non hanno: si tratta del coraggio di sciupare, non mettere a frutto, perdere appunto. Mi viene spesso l’immagine di una persona che tenga un cesto di foglie in mano, e le foglie volino via. Come le foglie di Sibilla? In fondo io credo che quel che scriviamo vada disperso, si debba perdere e ci debba perdere per il mondo. Mi piace molto infatti quel tempo remoto della letteratura in cui l’autore non era l’Autore, e le opere andavano sole per il mondo, in una sorta di sereno anonimato. Mi piacerebbe che recuperassimo un maggiore distacco verso di noi e verso le nostre creature (siano i libri, siano i figli… ?). Adesso invece teniamo più al nostro nome che a quel che facciamo… Ma questo sarebbe un altro discorso (che vorrei comunque lanciarti… ). Ho paura però del bucato e del sugo per la pasta: ho paura che noi donne con queste deliziose “cosucce” ci siamo un po’ date la zappa sul piede. Le “cose da fare”, le incombenze quotidiane, le commissioni… credo che da tutto ciò dovremmo prendere le distanze. Credo che per ogni mestiere artistico ci voglia un gran Tempo, un tempo tutto per sé. In cui poi ognuno decida se “femminilmente” distrarsi o “maschilmente” concentrarsi… Credo che il mio ultimo romanzo voglia dire (anche) un po’ questo, voglia lanciare un grido di (seppur contenuto) dolore: sul tempo che non abbiamo di pensare, di dedicarci unicamente a pensare… D’altronde, Stefania, tu avresti mai scelto di vivere in un deserto o nella solitudine di un eremo per darti indisturbata alla scrittura?

Ah no, no di certo. Anche perché io non è che alla scrittura proprio mi do. Per me è un’attività straordinariamente piacevole che fa parte del tessuto quotidiano e non ha particolari privilegi rispetto al resto. Deve conquistarsi il suo spazio fra le altre cose della mia vita, e darsi anche da fare, se no resta indietro… però insomma, alla fine il suo tempo se lo trova: ogni tanto i sughi tacciono, le figlie dormono, il marito sta in teatro a recitare, le amiche hanno da fare, e io sono lì, bella sola tranquilla, con il computer o il quaderno, e la musica… tu ascolti la musica mentre scrivi? E quale? Anche io ho da poco finito il nuovo romanzo, e mentre scrivevo questa volta ho avuto, come pietre angolari della colonna sonora, le musiche del film “L’estate di Kikujiro”, un CD di Brian Ferry e la sinfonia concertante di Mozart. In pratica, quando non sapevo bene come risolvere una scena, mettevo il CD e lasciavo che fosse lui a decidere… Come vedi, per scrivere io non prendo le distanze proprio da niente, anzi, mi tiro tutto addosso, tipo rosa con gli afidi (un’immagine drammaticamente presa dal mio balcone!). Ah, scusa, chi è Sibilla?

Scusami tu, Stefania, detta così sembrava una mia amica: no, dicevo proprio della Sibilla Cumana, quella che dava i responsi ai poveri mortali scrivendo una parola per foglia, poi buttava le foglie al vento e chi le raccoglieva aveva il suo daffare a mettere le foglie (cioè le parole) in ordine. Mi ha sempre preso molto questa faccenda della Sibilla, non tanto perché il destino, come ben sappiamo è oscuro e ancor più oscure sono le varie predizioni, ma per quel fatto delle foglie al vento; quel gesto mi piace, mi sembra voglia dire “ma vedetevela un po’ voi, io scrivo e forse scrivo anche la verità, le cose come sono e come saranno, ma che poi voi capiate ovvero diate credito alle mie parole… beh, questo mi è del tutto indifferente, anzi, provo un certo gusto a mandarvi tutto per aria”. Non so, qualcosa di simile mi attrae. Sarà che mi piace molto il vento. E’ l’unico vero segno di imprevisto che ci è concesso, l’ultima voce degli dei, dei loro sublimi capricci. E quando tutto è fermo, mi piace pensare che arriverà il classico colpo di vento e nulla sarà come prima, nulla come avevamo stupidamente… previsto. No, la musica non l’ascolto assolutamente quando scrivo. Mi distrarrebbe. O scrivo, o ascolto musica. Anche qui, è bello alternare, decidere di andare altrove e poi ritornare. Ascolto musica praticamente solo in auto mentre guido. E a volume altissimo, ahimè… Sono curiosa del tuo nuovo libro, auguri!

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