In “Se hai sofferto puoi capire” Giovanni F. e Francesco Casolo raccontano, con la voce di un bambino che sta cercando la sua strada per essere felice, la storia (vera) di un 12enne nato sieropositivo – Su ilLibraio.it un capitolo

“Mi chiamo Giovanni ho dodici anni (quasi tredici) e sono nato con l’Hiv”. Giovanni F. è un bambino nato sieropositivo, in cura presso il reparto malattie infettive pediatriche dell’Ospedale Sacco di Milano. Francesco Casolo, editor e scrittore, lo ha conosciuto grazie ai medici ed è stato subito travolto dalla sua leggerezza, l’entusiasmo e la voglia di vivere.

Da quest’incontro è nata l’idea del libro: la storia di Giovanni – spiazzante, ironica, sincera – raccontata con la voce e il linguaggio di un bambino che sta cercando la sua strada per essere felice; ma anche la storia di una malattia, l’Aids, di cui si parla sempre meno, nonostante i casi di contagio siano in aumento.

Se hai sofferto puoi capire

In Se hai sofferto puoi capire (Chiarelettere) Giovanni e Francesco Casolo – quest’ultimo già co-autore insieme ad Alì Ehsani di Stanotte guardiamo le stelle (Feltrinelli) e, insieme all’esploratore artico Robert Peroni, della trilogia groenlandese Dove il vento grida più forte, I colori del ghiaccio e In quei giorni di tempesta, (tutti editi da Sperling & Kupfer) – hanno deciso di affrontare uno dei più diffusi tabù contemporanei in maniera positiva, non per fare denuncia, quanto per diffondere la cultura della prevenzione.

“Ho un desiderio e mi hanno detto che questo libro potrebbe aiutarmi a realizzarlo: vorrei parlare della mia malattia perché il silenzio mi fa sentire un po’ solo (e a me la solitudine proprio non piace) e perché può aiutare anche chi non ce l’ha a non prendersela (questo me l’ha detto la dottoressa, eh)”. Giovanni F.

Per gentile concessione di Chiarelettere, riportiamo di seguito un estratto:

Sei mesi fa

“Mi chiamo ‘Storm of my’ perché anche se non è giusto con l’inglese sento questa tempesta in me e ho deciso di scrivere perché è la cosa che mi fa sentire più vivo.”

Ormai l’ho capito: le cose importanti uno le viene a sapere quasi sempre per caso. Dicono che i bambini devono scoprire il mondo ma poi sembra che i grandi facciano a gara per nasconderti più cose possibili. Prendi Babbo Natale, il grande segreto di quando sei piccolo: uno rimane dodici mesi a dirsi che sta per arrivare sulla slitta, in piedi, con le renne che gli corrono davanti, la barba lunga e bianca e il sacco enorme con dentro tutti i regali. Ecco, allora cerchi di farti trovare preparato, no? Scrivi una bella letterina e metti due biscotti e un bicchiere di latte all’ingresso a mo’ di benvenuto, così ti sembra di aver fatto il tuo. Ma mentre sei lì a rimuginare se sia meglio domandare una PlayStation o una macchina telecomandata, tua zia bisbiglia qualcosa a tua madre. Parlano, parlano e quando tu ti avvicini, più che altro per non sentirti escluso dalle loro chiacchiere, loro dicono: “Shhh, non parlare”, e poi schizzano a destra e a sinistra come cavallette impazzite. Lì capisci che c’è qualcosa che non ti vogliono far sapere, qualche pezzo che ti sei perso. Ma questa cosa qui era peggio, era più segreta degli altri segreti e proprio non me la voleva svelare nessuno. Mi capitava di veder parlare a bassa voce i ragazzi più grandi, e anche loro ammutolivano ogni volta che mi avvicinavo per sentire.

“Allora, cosa c’è, perché smettete di parlare?” “Niente, niente, Giò, niente”. E io sempre a rimanerci male. Ma com’è possibile, mi chiedevo, com’è possibile che mi escludano in questo modo? Cavolo! André, Adrian, Michelle, facciamo il corso di teatro insieme, ci vediamo da anni una o due volte al mese nella saletta per i giochi dell’Ospedale Sacco, siamo amici, perché non lo dite anche a me? Che ho combinato stavolta? Perché mi nascondete le cose? Ci rimuginavo un po’ su questo fatto che smettevano di parlare quando mi avvicinavo, e non è che non mi venissero in mente al volo due o tre motivi perché preferissero tenermi all’oscuro dei loro segreti. Forse pensavano che non sarei riuscito a trattenermi e sarei subito andato a spifferare a tutti questa cosa tanto misteriosa. O peggio, pensavano che l’avrei messa sul ridere, tanto per fare lo spiritoso, mentre probabilmente non faceva ridere

per niente. Ma sono venuto fuori da mia madre così, ho un po’ questa cosa di carattere che tendo a essere ottimista senza motivo. E mi piace buttare tutto in farsa. O in vacca, come dice un amico di papà. E allora niente. Bisbigli, sguardi di traverso: André e Fabri, che è poco più grande di me, da un po’ erano sempre lì a fare rapidi movimenti per smarcarsi dal ragazzino pestifero che sono.

Ma, come dicevo all’inizio prima di perdermi, le cose uno le viene a sapere quasi sempre per caso. Belle o brutte, non è che cambi molto: ci si può mettere lì a impegnarsi e a fare di tutto per scoprirle ma poi finisce che vengono fuori e basta. Quando vogliono loro. E quindi eccoci a quel momento.

Ci sono io, Giovanni, ho circa dodici anni, che poi sono gli stessi anni che ho adesso anche se sto per compierne tredici, e mi trovo in una saletta, da un medico che si chiama neurologo, che vuol dire che di lavoro guarda nelle teste dei bambini e dei grandi per capire cosa c’è dentro.

La stanzetta in cui mi visita è all’Ospedale Luigi Sacco di Milano, a Quarto Oggiaro. Il nome di un quartiere che nelle bocche dei milanesi capita spesso. “Abiti a Quarto Oggiaro”, “Vado a Quarto Oggiaro”: tutti parlano male di Quarto Oggiaro, è una zona con una pessima fama. Sembra sempre che le cose brutte succedano solo lì.

Per chi non è di Milano, e magari non lo sa, quarto oggiaro è vicino alle autostrade, il classico posto in cui non si passa se non si è proprio costretti ad andare. Ma a me il Sacco, anche se si trova a Quarto Oggiaro, mi piace, con quel suo giardino così grande e pieno di alberi e praticelli che quasi uno si dimentica che è un ospedale. Ci capito spesso, soprattutto nel reparto di pediatria che per me è un po’ una seconda casa: ci sono i giochi, ci sono tante persone che mi fanno festa quando arrivo, insomma, non manca niente perché sia un bel posto.

“E le gambe, come vanno le gambe?” mi chiedono tutti quando vado a fare le visite.

Ho un problema alle gambe, un problema che mi porto dietro da sempre. Ma di questo vi parlo dopo. Non perché è un segreto e faccio come i grandi e ve lo nascondo: semplicemente perché c’è tempo e prima viene altro.

Quindi quel giorno sono lì seduto dal neurologo, su queste poltrone che si abbassano e si alzano come dal dentista, e in testa ho una cuffia con una serie di fili attaccati. Devo fare un esame per la polisportiva, un elettroencefalogramma. Niente di strano, niente di nuovo, solo devo rimanere un po’ di tempo con questi fili collegati alla testa. La dottoressa fissa alcune righe che si alzano e si abbassano su uno schermo, poi ci danno un certificato, mia madre porta il certificato al centro sportivo e io posso iscrivermi al corso, e dalla settimana dopo cominciare a giocare a calcio. Una cosa che faccio ogni anno uguale.

Me ne sto lì seduto e attraverso la cuffia mi rimbombano mille suoni nelle orecchie: arrivano rumori più bassi poi più alti, cavernosi poi acuti. Quello che mi ricordo è che passano i secondi o i minuti e ci sono rumori che mi danno fastidio, che mi fanno quasi paura, come se arrivassero da un qualche mondo soprannaturale e lontano.

Devo stare immobile ed è come essere in un acquario: non sento quello che succede fuori dalla mia cuffia, vedo solo le labbra di mia madre e della dottoressa, che è una signora un po’ più giovane di lei, fra i trenta e i quaranta, che si muovono. Mamma parla e anche la dottoressa, che però intanto manovra i comandi di questa specie di Enterprise e su uno schermo appaiono onde che vanno su e vanno giù.

Io per non annoiarmi troppo penso appunto che siamo in un viaggio spaziale, mia madre è Spock e la dottoressa il capitano Kirk. Oppure che sono Calvin, quello di Calvin & Hobbes, un bambino che parla al suo cagnolino di peluche e fantastica sempre di essere chissà quale fico coinvolto in qualche avventura, ma poi arriva la maestra che lo sveglia regolarmente dai suoi sogni. “Calvin, Calvin” lo sta magari chiamando lei da cinque minuti, ma lui è nel suo mondo e non risponde, nonostante il boato di risate dei compagni. A un certo punto, sempre lì seduto, mi rilasso – ci si abitua a tutto –, quasi mi addormento, e poi ecco di nuovo un rumore che mi dà fastidio e mi fa rizzare le antenne. Quando finisce? Quando si atterra? Quando si arriva a destinazione?

Qualche secondo o qualche ora dopo – non so, il tempo nello spazio si misura in maniera diversa, gli anni sono secondi e i secoli minuti – atterro finalmente nel primo mondo. Quello in cui sono un ragazzino di seconda media, in compagnia della mamma, in visita da una dottoressa. I rumori si interrompono e a poco a poco l’udito riprende a funzionare, setto il mio cervello in modalità “realtà, globo terrestre”. L’insegna “nuova galassia” si spegne e vedo mia madre che parla con la dottoressa esattamente come stava facendo pochi istanti, secondi, momenti prima. Io sono quello di sempre, il viaggio spaziale non mi ha cambiato affatto, stessi riccioli neri, stessi occhiali tondi, lingua biforcuta, corpo magrolino. Mi guardo intorno un po’ intorpidito, piano piano finisce l’effetto acquario, al movimento delle loro labbra corrispondono adesso dei suoni, ma mia madre e la dottoressa sembrano non accorgersi di nulla. Forse sono solo distratte e non sanno che, neanche fossi l’uomo invisibile, ora sono perfettamente in grado di sentirle.

(Continua in libreria…)


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