“In che cosa, mi domando, un amore può essere simile a una minestra?”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari, che risponde agli ammonimenti della “saggezza amorosa collettiva”

È opinione diffusa – anzi, di più: quasi un luogo comune – che le storie d’amore, se interrotte, siano da considerarsi finite una volta per sempre. Guai a ricominciare!, ammonisce l’inesauribile fonte sotterranea di quella saggezza amorosa collettiva che sgorga, sotto forma di consigli oracolari spesso spontanei e non richiesti, ogniqualvolta le nostre scelte sentimentali vengano discusse in pubblico o in privato.

“La minestra riscaldata non è mai buona”, si dice, commentando – con scherno, sufficienza, contrizione o preoccupazione, a seconda dei casi – le vicissitudini una coppia che, dopo essersi separata, per qualche motivo torna a riunirsi: è tale la pretesa di universalità di quest’opinione da guadagnarle addirittura il rango di frase fatta, con inclusa – persino! – una bizzarra allusione gastronomica.

Questo paragone con la minestra mi è sempre sembrato, senza che mi chiedessi davvero perché, incongruo e decisamente infelice. Prima di tutto, si ribellano alla metafora misteriosa le pur scarse nozioni gastronomiche che ho: chi lo dice che la minestra riscaldata non è buona? La ribollita, regina di tutti gli intingoli, è per esempio una vera squisitezza, e come rivela il suo nome, questa zuppa prelibata è pensata è per essere cotta in due tempi; la si prepara la sera per poi rimetterla sul fuoco il giorno dopo.

Ma, soprattutto, quel che mi lascia perplessa nonostante la mia passione per la ribollita è il sospetto che ci sia un che di vagamente disgustoso, o per lo meno di stucchevole, nell’applicare, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo, questa metafora già discutibile sul piano gastronomico al destino di un amore.

In che cosa, mi domando, un amore può essere simile a una minestra? Se si trattasse di un paragone davvero superficiale, allegramente insensato, di un paradosso soltanto demenziale e niente più, è molto probabile che non suonerebbe così sgradevolmente moralistico. E invece, pur essendo in cuor mio persuasa che un amore non somigli affatto a una zuppa, ogni volta che la brodosa metafora viene sciorinata da qualcuno in mia presenza sento un fastidio familiare, che non può nascere solo dal mio infantile odio per le minestre (che temevo e aborrivo fino a quando non ho vissuto in Toscana scoprendo così i piaceri della ribollita). Ci dev’essere dell’altro, mi dico; e riflettendoci, forse qualcosa trovo. Perché la metafora della minestra viene riferita all’amore anche in un altro contesto, oltre a quello classico del ritorno di fiamma: l’espressione “sempre la solita minestra”, impiegata in toni variabili (dal faceto al condiscendente al finto-solidale da addio al celibato o al nubilato), per indicare la monotonia di un rapporto, riesce a descrivere con singolare, involontaria precisione lo squallore di una certa visione della monogamia e dell’amore.

L’idea è quella di un piatto semplice – la minestra, appunto – che, per quanto possa essere buono, è pur sempre qualcosa di casereccio, di quotidiano, di solito; qualcosa che si mangia, potenzialmente, ogni giorno; e l’espressione idiomatica “sempre la stessa minestra” insinua che questa stracca ripetizione di pasti sempre uguali escluda dal ménage tutti i mangiarini più appetitosi, quelli degni di occasioni speciali – quelli che sono essi stessi delle occasioni speciali.

È un’immagine piuttosto triste, e molto diffusa, della vita di una coppia, della scelta di una persona accanto alla quale trascorrere il tempo; è un’immagine triste perché implica che il patto stipulato con l’innamoramento debba essere per forza di cose una specie di giogo, che l’esclusività di un rapporto amoroso sia una sorta di condanna che si è obbligati a scontare – una condanna a una dieta scipita e senza sorprese, che però evita di lasciarci a bocca asciutta.

Forse, per provare a uscire da questa tormentosa rappresentazione della fedeltà a una persona come una continua rinuncia o il ripetersi di una condanna, bisognerebbe provare a non pensare alla monogamia – o alla solita minestra – come a qualcosa di obbligatorio, di forzato; a non vederla come il patto la cui infrazione è, in assoluto, la più grave per una coppia. Curiosamente, proprio come in quell’aforisma di Karl Kraus che dice che “la verginità è l’ideale di quelli che vogliono sverginare”, la fedeltà è in genere considerata un ‘valore’ fondamentale proprio da quelli che più di frequente impiegano la metafora della ‘solita minestra’. E, riflettendoci, mi pare evidente che sia molto più grave, e molto più triste come tradimento, essere considerati una minestra da buttar giù per forza, che essere traditi con un’arista o un bel timballo.

Nessuno ci obbliga a mangiare nessuna minestra, o a saltare nessuna finestra. Se la vogliamo mangiare, magari, è solo perché ci piace; e magari, scopriremo, ci piace proprio la ribollita.

Ilaria Gaspari - foto di Angelo Palombini
Ilaria Gaspari – foto di Angelo Palombini

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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