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Shakespeare e Cervantes: un confronto d’autore

Il 23 marzo del 1616 William Shakespeare fece testamento. Era malato da diverse settimane, anche se non sappiamo esattamente di cosa soffrisse e possiamo soltanto immaginarlo a partire dai sintomi che manifestava. Lasciò gran parte della sua ingente fortuna alla figlia Susan e 300 sterline all’altra figlia, Judith. Alla moglie, Anne Hathaway, riservò la mobilia, oltre al terzo dei beni che le spettava per legge. Distribuì, infine, gioielli e argenteria tra fratelli, nipoti e parenti, mentre ai poveri della parrocchia destinò 10 sterline.

Il 26 marzo di quello stesso anno, a migliaia di chilometri da Stratford-upon-Avon, Miguel de Cervantes scrisse una lettera al suo protettore, don Bernardo de Sandoval y Rojas, arcivescovo di Toledo: “Il male che mi affligge” gli diceva “incalza tanto che credo che mi stroncherà, sebbene senza riconoscenza da parte mia”. Sappiamo che Cervantes soffriva di idropisia, ma ignoriamo la malattia che gliela provocava. E sappiamo che, a differenza di Shakespeare, l’autore spagnolo non aveva quasi nulla da lasciare ai suoi eredi, nemmeno una casa propria. In quel marzo di 400 anni fa, infatti, Cervantes viveva presso un amico sacerdote, in calle de León a Madrid, a pochi metri dal convento di Santa Ana. “La fortuna”, ha scritto José Manuel Fajardo, “non gli aveva sorriso, nonostante la fama dei suoi libri, e negli ultimi sette anni si era visto costretto a cambiare quattro volte domicilio, sempre nello stesso quartiere vicino a calle del Príncipe. Perciò, l’autore del Chisciotte lasciava alla moglie, donna Catalina de Salazar, poco più che i suoi libri e i suoi scritti, e ordinava soltanto di recitare due messe per la sua anima”.

I testamenti dei due scrittori sono forse la metafora più esatta dei differenti destini dell’impero inglese e di quello spagnolo: così come la Corona inglese prosperava inarrestabile, il patrimonio di Shakespeare era cospicuo, mentre le ristrettezze di Cervantes riflettevano la decadenza della Spagna, che viveva con Filippo III l’inizio della sua lunga agonia.

Anche le loro esistenze avevano avuto corsi molto diversi. Shakespeare era stato un drammaturgo di successo, ma nella tragedia della vita si era limitato a un ruolo da spettatore, assistendo senza parteciparvi alle convulsioni politiche e ai complotti contro la regina a Londra. Cervantes, invece, aveva recitato da prim’attore nel gran teatro del mondo. Aveva partecipato alla famosa battaglia di Lepanto del 1571, dove aveva perso l’uso del braccio sinistro. Quattro anni dopo, mentre tentava di raggiungere la Spagna a bordo della galera Sol, era stato catturato dai pirati al largo di Cadaqués e condotto prigioniero ad Algeri. Vi era rimasto cinque anni e, quando finalmente aveva fatto ritorno in patria, aveva trovato la propria famiglia in miseria. Disoccupato e affamato, aveva dovuto accettare l’ingrato lavoro di requisitore per l’Invincibile Armata che avrebbe dovuto sconfiggere l’Inghilterra, un incarico che consisteva nel sequestrare in terra andalusa grano e olio a contadini più affamati di lui. Accusato ingiustamente di malversazioni, era finito nuovamente in carcere, poi aveva reagito alla crudeltà del mondo con l’ironia e la follia di un capolavoro come il Don Chisciotte: dopo la pubblicazione della prima parte dell’opera, nel 1605, era diventato famoso, ma la sua situazione economica non era cambiata di molto.

Ora, però, in quella primavera del 1616, entrambi gli scrittori sapevano che la morte era in agguato e si preparavano ad affrontarla. Il 2 aprile Cervantes si sentì così male da non poter più lasciare la sua stanza, il 19 chiese l’estrema unzione. Anche Shakespeare trascorreva gran parte della giornata a letto, ma la sera del 22 aprile si fece forza per alzarsi e ricevere degnamente gli amici Michael Drayton e Ben Jonson. Mezzo secolo dopo, John Ward, un vicario di Stratford, raccontò (e nessuno sa se il suo racconto sia vero o se si tratti soltanto di una leggenda) che quella notte i tre bevvero e mangiarono molto, e che l’alba del 23 trovò Shakespeare e Drayton davanti al caminetto in preda a un forte accesso febbrile. Il dottor Hall, il genero del drammaturgo, accorse subito, ma, mentre Drayton riuscì a salvarsi, Shakespeare rimase a terra con gli occhi spalancati, mormorando parole incomprensibili, finché a poco a poco si spense. Aveva cinquantatré anni. Anche Cervantes morì, sessantanovenne, all’alba del 23 aprile. Scomparvero, dunque, lo stesso giorno?

Ci piacerebbe poter rispondere di sì. Invece i due non si conobbero in vita e non furono nemmeno accomunati dalla morte. Cervantes morì il sabato 23 aprile, Shakespeare il martedì 23 aprile. Com’è possibile? In realtà, mentre a quell’epoca in Spagna vigeva già il calendario gregoriano, l’Inghilterra conservava ancora quello giuliano, perciò il 23 aprile inglese corrispondeva al 3 maggio spagnolo. Shakespeare, dunque, morì dieci giorni dopo Cervantes. Solo i capricciosi computi degli uomini riuscirono in qualche modo a fare incrociare i destini dei due più grandi scrittori dell’epoca, e forse di tutti i tempi.

L’AUTOREBruno Arpaia è giornalista, scrittore, studioso di letteratura ispano-americana e traduttore italiano di autori come Marquez, Cercas, Zafon, Sepùlveda e Pérez-Reverte. Nel 1990 è uscito il suo primo romanzo, I forestieri, vincitore del Premio Bagutta Opera Prima. Tra le altre pubblicazioni: Il futuro in punta di piedi (1994), Tempo perso (1997), L’angelo della storia (2001), Il passato davanti a noi (2006), L’energia del vuoto (2011), finalista al Premio Strega 2011, La cultura si mangia! (con P. Greco, 2013), Prima della battaglia (2014). Il suo ultimo romanzo, Qualcosa, là fuori è in libreria per Guanda.

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