L’esordio da romanziere di Gian Paolo Serino è un’opera corale dedicata ai luoghi oscuri della società dello spettacolo. I protagonisti di “Quando cadono le stelle” sono artisti, scrittori, attori, personaggi dello Star System, presi nei momenti più oscuri, sordidi e inquietanti delle loro vite – Su ilLibraio.it il capitolo dedicato a Picasso

Un attore famoso, alcolizzato e depresso in privato ma simbolo del «sogno americano» in pubblico, riceve una notizia personale che gli cambierà la vita per sempre.

Il più grande artista del mondo, durante l’occupazione nazista, rende immortale la figlia della donna di servizio di un hotel su una spiaggia di Juan-les-Pins, in Francia.

Quandocadono

Un giovane scrittore newyorchese s’innamora della figlia di un Premio Nobel per la letteratura. Questa relazione lo sconvolgerà a tal punto da pubblicare uno dei libri più venduti al mondo.

Un anonimo funzionario di una compagnia di assicurazioni si occupa di sicurezza sul lavoro. Conosce una cameriera in un bordello nel ventre nero di Praga e, grazie a lei, troverà il suo modo per salvare l’umanità.

Arrivato alla fine della sua vita, uno dei più grandi scrittori del Novecento si suicida con la canna di un fucile in bocca, mentre una ragazza vitale, chiassosa e ribelle alle regole rigide della sua famiglia, negli anni Quaranta viene sottoposta per volere del padre a un intervento di lobotomia frontale.

Gian Paolo Serino, critico letterario, fondatore della rivista Satisfiction compie un salto e debutta col suo primo romanzo: Quando cadono le stelle (Baldini&Castoldi). Un’opera corale che racconta i luoghi oscuri della “società dello spettacolo”.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il primo capitolo

Sono il più grande artista che sia mai esistito.
Tutto quello che tocco diventa immortale. Su questa spiaggia non c’è granello di sabbia che non possa trasformare in arte. Io faccio questo. Ho sempre fatto questo. Trasformo le cose, le faccio diventare meraviglia.
Il sole mi brucia la testa e le braccia. La cosa non mi dispiace. La mia sdraio è bianca come i miei capelli, rigidi per la salsedine.
Questo mare francese stamattina mi sembra infinito. Immortale. Come me.
Se ci mettessi una fi rma sopra varrebbe milioni di franchi, e nelle aste la nobiltà europea e i galleristi newyorkesi si dissanguerebbero a forza di rilanci per comprarlo.
I bambini corrono per la spiaggia. Gridano come se scappassero dalla morte. Cadono, si ricoprono di sabbia.
Chiudo gli occhi e sento le loro voci sovrastare il suono del mare.
Jacqueline dorme. La fi sso. Mi sembra niente di più che una bambina. Dorme con la faccia imbronciata. Ho sempre notato in lei qualcosa di incredibilmente triste:
qualcosa di indefi nito che opprime me e deve opprimere anche lei, e che mi è incredibilmente familiare, in qualche modo. Quel qualcosa lo noto con maggiore forza, adesso che la guardo dormire.

Vorrei proteggerla, fare qualcosa per lei. Ma non farò niente. Ho avuto tante donne. Non so se ne ho mai amata qualcuna. Jacqueline dice qualcosa. Un bambino correndo le ha coperto le caviglie di sabbia.
Ricordo con una certa tenerezza che fi no a poco tempo fa provava vergogna nel farsi ritrarre.
Suo padre l’ha abbandonata quando aveva due anni, o qualcosa del genere. Sua madre credo sia morta. Quando mi ha parlato della sua infanzia ha pianto. Ricordo di averla ascoltata poco, ma ricordo che i suoi occhi erano diventati ancora più grandi del solito.
Ha sempre lavorato molto, quando l’ho conosciuta aveva le mani sporche di creta. Non aveva neanche trent’anni e io più di settanta. Era un’operaia. Bella. Intelligente. Piena di velleità.
Penso a Françoise. A Dora. Marié-Thérèse. A Olga. Ogni tanto, fugace e insopportabile, mi ritorna in mente il pensiero di aver fatto loro solo del male.
Mi dispiace, ma dopo me c’è solo Dio.

Mi piego a toccare la sabbia con l’indice e scrivo il nome di mia madre.
A riva, vedo una donna seduta sul bagnasciuga. Dietro la donna spunta una ragazzina. Esce per metà dall’acqua. Con le mani si strizza i capelli lunghi. Ha un costume rosso. Le forme geometriche di uno sviluppo inconsapevole e precoce. La morbidezza dei residui dell’infanzia.
La schiena le descrive una curva molto pronunciata, come quella delle ballerine. Non riesco a vederle il viso.

La donna sembra avere enormi premure per la figlia. La fissa mentre si tuffa e con grandi bracciate divora le onde delicate del mare, che le accarezzano il fondo del costume.
Vorrei tornare bambino. E non per rimpianto senile. Non sono uno di quegli uomini che iniziano a singhiozzare come neonati non appena ripensano alla loro infanzia, che credono quasi per convenzione che in età infantile siano stati necessariamente più felici.
L’infanzia è l’età dell’arte. E un artista vero è chiunque riesca a conservare il tratto dell’infanzia. A non perderne l’immaginario. A ricordarlo e riuscire a riprodurne la paura, la paura inconsapevole di un bambino durante la guerra. Io lo so. L’ho vista.
Pagherei tutto quello che ho per poter tornare a disegnare come un bambino. Vorrei disegnare con le mani di quella ragazzina. Vorrei provare la sua angoscia, avere i suoi istinti.
La tecnica è per i pittori mediocri, per i geometri. Mio padre non sarebbe d’accordo. Lui che ha sempre avuto l’ossessione di dipingere, è riuscito a ritrarre solo se stesso.
Credo che la violazione intellettuale più grave che si possa compiere su un bambino sia cercare di limitarne l’istinto, cercare di irreggimentarlo con concetti, regole, convenzioni. Mio padre pensava che l’arte fosse a servizio delle regole, e non il contrario. È per questo che lui è morto anonimo. E io invece sarò sempre il più grande artista del mondo.

(continua in libreria…)

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