Il romanzo di Léonora Miano ci porta in un villaggio dell’Africa sub-sahariana. Una notte, un incendio devasta il villaggio e scompaiono dodici giovani uomini. Al centro del libro, la condizione femminile: le donne, infatti, vengono sospettate dalla tribù di essere state causa e artefici della grande sventura… – L’approfondimento

Il Male esiste. Si prende le vite come una nebbia, sovrasta le case come un fumo, offusca le menti e non le lascia. Il Male esiste, e ne La stagione dell’Ombra di Léonora Miano (Feltrinelli, traduzione di Elena Cappellini) è il protagonista reale, occulto: pervasivo e pesante, il Male rapisce giovani uomini Mulongo, il futuro di questa tribù dell’Africa sub-sahariana, e li porta via. Senza motivo né meta: dodici giovani uomini scompaiono in una devastante notte d’incendio – non c’è luogo, nel testo, e non c’è tempo, la vita verrà scandita secondo i ritmi della terra – scompaiono e il loro posto è preso solo dalla paura.

La stagione dell’Ombra di Léonora Miano

Dal primo momento, quello dell’abbandono e dello sgomento, sono le donne – è una donna – il centro di questo libro che non a caso è valso all’autrice di origine camerunese il Prix Femina del 2019: sono le donne il centro, “quelle i cui figli non sono stati trovati”, quelle che in prima battuta vengono sospettate dalla tribù di essere state causa e artefici della grande sventura.

Rinchiuse in una capanna comune sulla quale cala una minacciosissima nube perenne, saranno le donne a interrogarsi, e poi a muoversi, seguendo le indicazioni di tutto ciò che è sacro: il ricordo, l’amore, il sogno. Sarà una donna a sognare un grande paese fatto d’acqua che ha inghiottito suo figlio: lei che appartiene a un popolo fatto di terra e foreste, è chiamata ad attraversare il continente africano per cercare l’Oceano di cui non ha nessuna cognizione, ma che sa essere la via. Lo troverà, Eyabe, e con l’Oceano troverà la risposta. E troverà il Male.

Il Male esiste, appunto, e prende nome una pagina dopo l’altra: sembra sia la magia, prima, sembra sia la superstizione e sembra sia il mistero.

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È uno stile lento e misterioso quello scelto dall’autrice (camerunese, classe ’73, ora vive a Parigi): uno stile che procede come un giallo, come un’indagine, lasciando che il lettore scopra insieme alla protagonista, passo dopo passo, la realtà. La narrazione va come un viaggio. A guidare l’esploratrice è la voce del sangue.

Si capirà, viaggiando insieme alla protagonista, che il Male non è altri che l’uomo. L’uomo che arma suoi simili gli uni contro gli altri, l’uomo che mette in ceppi il suo simile: il viaggio porterà il lettore a scoprire dove e quando si svolge la scena, all’origine di un male antico e ingiusto, quello della prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Gli anni delle deportazioni dall’Africa all’America, gli anni dello schiavismo, gli anni in cui la faccia del mondo cambia, e non in meglio. Un’intera fetta di umanità verrà schiacciata, reificata, incatenata e venduta per denaro e potere da uomini di un colore diverso, in nome di una autoproclamatasi civiltà.

Ma anche in questa storia, come in tutte le storie, le tradizioni antiche si riconoscono da una promessa di discendenza, di famiglia. E una famiglia è una storia, una tribù, un popolo, è il tessuto delle sue famiglie. Quello che accade nell’Africa del XVI secolo non è solo un’invasione, non è una ruberia di risorse e di uomini, non è solo la riduzione in schiavitù e la deportazione di uomini e donne senza più dignità. Quello che accade è la distruzione, la cancellazione dalla radice di una popolazione, di una civiltà, di un’identità. Estirpati come piante dalle radici, uomini e donne e bambini, non potranno che seccare, che morire, anche se all’apparenza resteranno in vita sulle navi, e poi nei mercati di schiavi, e poi nelle piantagioni e nelle case dei padroni statunitensi.

La civiltà soppressa non rimane che nella memoria. E nei canti, e nelle danze, che le donne della tribù continuano a tramandarsi, mentre tutto crolla, rendendo onore sacro a chi muore, perché sacro ne sia il ricordo. Ci vorranno generazioni perché quelle piante secche, senza vita se non apparente, riprendano colore e forma, riappropriandosi della propria umanità. Ma quella sarà un’altra terra, un’altra stirpe. E un’altra storia.

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