Com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo. E soprattutto, è legittimo farlo? Su questo interrogativo si costruisce “Storia di Ásta”, ultimo, complesso libro dell’islandese Jón Kalman Stefánsson, un romanzo polifonico di rara intensità – L’approfondimento

Ma com’è possibile raccontare la storia di una persona senza toccare anche le vite che la circondano, l’atmosfera che sostiene il cielo – e soprattutto, è legittimo farlo?

Su questo interrogativo si costruisce Storia di Ásta, ultimo romanzo di Jón Kalman Stefánsson (edito come gli altri da Iperborea).
La storia di una fuga, o meglio del suo tentativo vano: quella da se stessi, sullo sfondo di un nord Europa che tra Reykjavík, la campagna islandese, i Fiordi Occidentali, Copenhagen – con sporadiche incursioni nelle più assolate Vienna e Barcellona – tocca le vicende esistenziali di personaggi bellissimi e, alla maniera di Stefánsson, genuinamente in balia di passioni troppo umane declinate in tutte le loro sfaccettature.

STORIA DI ÁSTA

I “buoni propositi” narrativi dell’autore sembrano promettere bene: la prima parte, secondo una logica cronologica impeccabile, si apre poco prima della nascita di Ásta, con il ritratto dell’intensa relazione tra la bella Helga e Sigvaldi, sullo sfondo sociale controverso dello sciopero alla centrale del latte che fa da contraltare a un sentimento che non riesce a incrinarsi neanche di fronte alle necessità politiche ed economiche.

Una linearità destinata però a interrompersi presto: il racconto viene infatti mozzato dall’intermezzo della prima lettera di Ásta, indirizzata a un amore ancora sconosciuto. È l’inizio della fine: da questo momento il lettore viene scaraventato tra i pezzi di un puzzle narrativo composto da informazioni centellinate che a fatica trovano il loro incastro in una linea del tempo fatta di continui salti temporali attraverso i quali i personaggi si rivelano in tutta la loro complessità.

Così veniamo a conoscenza della follia di Helga, della morte della sorella di Ásta, del suo tentato suicidio prima che ci vengano descritti la sua infanzia tra le cure dell’amata balia, le sue prime esperienze sessuali, l’esilio estivo per cattiva condotta. Tra una lettera d’amore, una digressione letteraria o musicale, un flashback di Sigvaldi, il quadro prende forma: la fatica del vederlo erigersi pagina dopo pagina non è solo del lettore, ma anche dello scrittore, che ce ne rende partecipi attraverso riflessioni metaletterarie che traggono spunto sia dai dialoghi tra Sigvaldi e il fratello poeta (“Gli vado a chiedere la sua opinione su come va il mondo, mi sono detto lungo la strada. Gli scrittori devono avere un punto di vista originale: non ti sembra che vada tutto allo sfascio, nel mondo?”) sia dagli interventi diretti di Stefánsson. Lo scrittore non esita a esprimere la propria frustrazione di narratore onnisciente e a chiederne venia ai suoi lettori:

È impossibile raccontare una storia senza sbagliare, senza intraprendere percorsi arrischiati, o senza dover tornare indietro, come minimo due volte – perché viviamo contemporaneamente in tutte le epoche.

Storia di Ásta è la risposta al duplice – fallimentare – tentativo di raccontare una vita (ma nessuno può farlo “tranne Dio / e Dio non esiste”) e di trovare la chiave a quesiti esistenziali dai toni poetici: “La felicità della vita dipende dagli orari degli autobus?”; “Ma allora la nostra esistenza ha radici così superficiali, che un istante riesce a cambiare tutto?”; “Dov’è la mia felicità, l’hai vista qui in giro? Si nasconde sotto il letto?”.

L’anelito a una felicità che sfugge, alla compenetrazione di anime affannosamente cercata in quella dei corpi, il bisogno incessante e inappagato d’amore si impongono come denominatore comune di esistenze diverse in costante bilico tra desiderio e nostalgia.

Ne risulta un romanzo polifonico di rara intensità, in cui l’aggettivo corale trova l’apice della sua espressione coinvolgendo tutti – ma proprio tutti – gli attori del processo letterario.

Se “le verità del cuore non sempre si accordano a quelle del mondo”, è impossibile non commuoversi di fronte all’ingenuità di una piccola Ásta che sogna che le sue braccia si trasformino in ali e piange quando si risveglia con le sue “mani di burro”; all’amore che nasce tra lei e Jósef tra una pietra incastrata e l’altra (“Ásta si rende conto che può confidarsi con lui. Se ne rende conto e allo stesso tempo sente di non trovarsi più da sola davanti a quel precipizio vertiginoso che sa essere la vita”); alla lettera dagli abissi di una lontana Barcellona; all’ingenuo dolore di quell’uomo semplice che è Sigvaldi; e, soprattutto, alla triste e sconquassante disperazione di Helga:

Vuoi sapere qual è la mia sventura? È che quei maledetti extraterrestri si sono dimenticati di venire a prendermi quando avevo diciannove anni per rendermi immune alla routine. Si sono dimenticati di me. Si sono dimenticati di disconnettermi il desiderio di libertà e di avventura. E adesso è troppo tardi, sono troppo vecchia. Tu sei libero, perché non vedi la prigione che ti circonda. Io sono prigioniera, perché vedo le sbarre. Tu sei stato scollegato in tempo. Ti hanno staccato l’inquietudine, la foga, la sete di novità, di imprevisto. A me invece è rimasto tutto dentro. È questa la mia sventura.

“Ciascun essere umano è uno strumento a sei corde”, scrive l’autore. Con una colonna sonora sofisticatissima che oscilla con leggerezza tra Nina Simone, Billie Holiday, Leonard Cohen e Antonín Dvořák, Stefánsson si impegna nell’ardua impresa di toccarle tutte. E ci riesce come sempre molto bene.

A volte pare che un’unica strada porti alla felicità e alla disperazione
– ma a parte questo, va tutto bene, no?

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