Perché ogni volta che c’è qualche avvenimento importante si discute dell’ironia? E perché sembra così importante nel discorso culturale? Era la strategia con cui le controculture avanguardistiche criticavano la società ma, sosteneva David Foster Wallace, presto fu assimilata dalla stessa cultura alla quale si era opposta. La sua risposta, che influenzerà gran parte del pensiero successivo, fu un ambivalente tentativo di essere sia ironico sia sincero, tanto che si parla di “post-ironia”… – L’approfondimento

Poche cose hanno la sostanza ectoplasmatica dell’ironia. Morta (e poi risorta) parecchie volte. Dopo l’undici settembre per il Time “L’era dell’ironia era giunta alla fine”: alcune cose dovevano essere prese sul serio. Contrordine: Michiko Kakutani sul New York Times pensava fosse un equivoco, e anzi, che davanti a tali eventi, la cultura, con l’ironia, ne esorcizzava l’inquietudine. Sull’equivoco faceva chiarezza anche Zoe Williams sul Guardian. Usò gli stessi toni funebri Joan Didion nel 2008 a causa di Obama. Le rispondeva Colson Whitehead: “Quand’è che qualcuno dichiarerà la morte della lattuga iceberg? Sono stanco di farci la mia noiosa insalata”; nel 2017 se ne dava il triste annuncio causa Trump o alt-right. “L’ironia è morta, lunga vita all’ironia”, scrivevano su Salon già il 25 settembre 2001.

Viene un po’ il mal di testa, ma questi discorsi sono molto più vecchi.

L’ironia viene indicata spesso come il modo di espressione della società postmoderna. Nel 1983 Eco sosteneva che fosse ormai impossibile dire “ti amo disperatamente” perché “lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala”. Come fare? Con l’ironia: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”. In un’epoca di innocenza perduta con il gioco ironico si aggirava la sensazione che tutto fosse stato già detto (dal mercato, dalla pubblicità, da chi lo fa ingenuamente come Liala, suonando quindi falso) e così si poteva parlare ancora del caro e vecchio amore.

Tutto bene, salvo che presto una nuova generazione di scrittori ha percepito come falso, inautentico, mercificato quello stesso atteggiamento. Anche che tutto fosse stato già detto, bè, era stato già detto. David Foster Wallace in E unibus pluram ne evidenziava gli effetti deleteri. L’ironia non è negativa di per sé. Anzi, la carica ironica della letteratura postmoderna era parte di una logica culturale che legava l’avanguardia, la trasgressione e la ribellione delle controculture: mostrava l’ipocrisia della cultura americana degli anni ’60. “Una reazione sensata a un mondo ridicolo”, scrive. Il gesto d’avanguardia – e ironico –  di Duchamp di mettere i baffi alla Gioconda contestava le regole implicite del mondo dell’arte e, quindi, del mondo intero. Fungeva da negazione critica, dicendo che il mondo non è quanto sembra.

Il problema sorge quando l’atteggiamento ironico diventa lo status quo da criticare. Wallace sosteneva che la televisione (non il male, ma un semplice specchio delle tendenze dominanti), dopo una prima fase di apologia dei valori anni ’60, aveva incorporato l’estetica postmoderna svuotandone il dissenso. Ironicamente, la controcultura era stata assimilata dallo stesso establishment al quale si era opposta e la sua ironia ne risultava istituzionalizzata. “Il cinismo, l’irriverenza, l’ironia, sono parte di qualsiasi cosa innervi la cultura oggi, no?”, affermava, “Burger King ora vende gli hamburger dicendo ‘devi rompere le regole’”. Nelle pubblicità l’ironia faceva sì che ci si sentisse sia speciali (l’ho capito lo scherzo, giusto?, mica come gli altri) sia parte di un enorme segmento di mercato.

Così, la ribellione e la sua critica ironica, ora suona inautentica: diventa uno stile, una posa. Diretta conseguenza sarebbe una solitudine disperata, percepita fin dentro le viscere perché ogni comunicazione è interrotta se si basa sull’implicito assunto che non si sta dicendo davvero sul serio. I nuovi ribelli saranno degli ‘antiribelli’, in grado di comunicare sinceramente e non aver paura di suonare banali o ingenui.

Per Fred Turner, professore all’Università di Stanford, gli ideali delle controculture sono addirittura all’origine delle megacorporation della Silicon Valley. Il “siate folli” reso celebre da Steve Jobs, per esempio, viene dal Whole Earth Catalog di Stewart Brand, figura con un piede nell’LSD e l’altro nella proto-cultura di Google; e per molti altri oggi si è fatto tutto il giro: secondo Angela Nagle, autrice di Kill all normies, l’alt-right si è posta come una controcultura trasgressiva e ironica antitetica al mainstream (reale o meno, non importa) di una sinistra noiosa, puritana, moralista, guardiana del politicamente corretto. “Una rivoluzione culturale non indifferente” notava sull’Atlantic.

La soluzione di Wallace però non è il ritorno a un’ingenua serietà (considerato impossibile) ed è diventata un modello sia per chiunque abbia scritto dopo di lui: da Dave Eggers e McSweeney’s (presto criticati sul primo numero di n+1), a Ben Lerner, a Jennifer Egan; sia per la cultura pop: da Aziz Ansari, a Wes Anderson, a BoJack Horseman.

Wallace – per il quale lo scopo della letteratura è una reale comunicazione tra esseri umani: un antidoto contro la solitudine – fa attorcigliare l’ironia su di sé: un ciclo ricorsivo per il quale è ironico, ma ironicamente, al fine di essere sincero. Suona paradossale, infatti c’è chi parla di post-ironia. Infinite Jest è sia una parodia, dunque una negazione critica del suo tempo (ironia inclusa), sia un’accorata storia di formazione dei suoi personaggi, volta a descriverne autenticamente la parabola morale; a suggerire dei valori. Sincerità, cinismo, autenticità, e ironia si fondono.

L’autore contestava “l’illusione che ironia e ingenuità si escludano a vicenda” ma, oltre a cercare una comunicazione autentica, la sua opera riguarda un mondo sentito come paradossale e contraddittorio. In un saggio su David Lynch scrive: “Laura Palmer è sia buona, sia cattiva, e insieme nessuna delle due cose: è un personaggio complesso, contraddittorio, reale”. Questa “melmosa entrambità” (“muddy bothness”), questa ambivalenza, la riconosciamo dentro di noi. Ma anche altrove: dai meme, ai cantanti ironici come Fabio Rovazzi che fanno concerti con la t-shirt ‘non sono un cantante’, ai baffi degli hipster (morti spesso pure loro), agli hamburger gourmet; tutti consci dell’effetto del paradossale legame tra ironia e autenticità. Notava Alex Shakar in The Savage Girl, parlando proprio di post-ironia, che l’essenza paradossale è anche quanto fa funzionare il marketing. Insomma, l’ironia pare sia viva sia morta.

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