Una sottile (non così sottile) linea rossa – rosso sangue – lega “Suspiria” di Dario Argento, il film originale del 1977, a questo remake non remake che Luca Guadagnino ha covato (incubato?), lui racconta, sulla scorta di una folgorazione d’infanzia per il capolavoro dell’horror, nel corso di diverse decadi, e che emerge ora – attesissimo – in questa nuova (discussa) forma. Rispetto all’antirealismo fiabesco e archetipico dell’originale, la versione ora nelle sale si immerge pienamente nella Storia… – L’approfondimento

Una sottile (non così sottile) linea rossa – rosso sangue – lega Suspiria di Dario Argento, il film originale del 1977, a questo remake non remake che Luca Guadagnino ha covato (incubato?), lui racconta, sulla scorta di una folgorazione d’infanzia per il capolavoro dell’horror, nel corso di diverse decadi, e che emerge ora – attesissimo – in questa nuova forma, sovrabbondante (152 minuti contro i 98 del primo) e, rispetto al consenso di pubblico e di critica travolgente per Chiamami col tuo nome, piuttosto controversa (divisiva, come si usa dire oggi, ma, data la materia, verrebbe da dire: lacerante).

Notevoli le aspettative (un film che si è fatto sospirare, ironizza complice Marco Giusti), e il pubblico dunque si spacca, fra giudizio e pregiudizio.

Ci sono i puristi: non si fa, non si tocca un oggetto di culto, vertice del genere e d’autore. Si fanno sentire gli aperti detrattori, che hanno visto nella palese ambizione del progetto una mossa pretenziosa (troppa carne al fuoco: che altro però dire di una struttura alla Lars Von Trier in “sei atti e un epilogo” che vuole evocare i roghi dell’Inferno attraverso gli echi della Storia?) e/o ideologicamente ambigua (vedi le critiche femministe a un film che, nelle intenzioni dell’autore, parla di maternità, patriarcato e potere, si mette dalla parte delle “streghe”, con un cast quasi solo femminile, nell’anno del #metoo). Infine, naturalmente, gli entusiasti, talvolta a priori, pronti a gridare, non solo e non tanto di paura (per molti critici il film è troppo poco spaventoso, e di certo non si basa su facili jumpscares), ma al capolavoro, per quello che è evidentemente un film molto ricco, complesso, anche se per certi versi confuso, certamente coraggioso ed eccentrico, sia nel panorama del cinema nostrano (si è detto molto della vocazione internazionale produttiva e creativa di Guadagnino, sul solco di Bertolucci) che all’interno del percorso autoriale del regista, che non è mai semplice da incasellare, sempre mosso com’è da una ricerca infaticabile e imprevedibile, quand’anche contraddittoria, debordante e diseguale, nei segmenti e negli esiti.

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“Dobbiamo spaccare il naso a tutto ciò che c’è di bellissimo”, dichiara la coreografa Madame Blanc, prima e principale delle tre parti affidate nel film all’attrice feticcio del regista di Io sono l’amore, Tilda Swinton, che veste i panni della leader carismatica della scuola di ballo Markos Tanz Company, possibile copertura, come vuole il soggetto originale, di una congrega di streghe. Il personaggio appare una rivisitazione di Pina Bausch, potente e magnetica, materna dolce e severa insieme. La Maestra esprime, attraverso una sì(dis)fatta concezione dell’arte, la forza provocatoria che muove la mano e tiene le fila della danza macabra allestita dallo stesso Guadagnino, realizzata nelle diverse declinazioni di un Sabba propiziato e concepito in crescendo, grazie all’aiuto del coreografo belga Damien Jalet.

E la presenza concreta e centrale del ballo, decisamente contemporaneo (dalle parti del teatro danza e della performance: Jalet ha lavorato anche con l’Abramovich), è un aspetto distintivo di questa versione. Il movimento della danza diventa un veicolo decisivo e sconvolgente (poesia, preghiera, incantesimo) del corpo e delle sue pulsioni. Danzare somiglia a “quando si scopa” (precisazione: “con un animale”), sostiene a un certo punto la giovane protagonista, una Dakota Johnson che prende posto nelle fila dell’accademia (tutta di femmine, al contrario della scuola mista del film modello) con determinazione e carattere, sotto l’iniziale posa umile (le cinquanta sfumature di rosso dei suoi capelli riverberano da subito un fuoco interiore dietro alla tenuta grigia). Tutto un altro (im)mondo rispetto alla Susy Benner un po’ persa, svagata e snow white, interpretata trent’anni fa da Jessica Harper (che qui ricompare in un cameo significativo). Questa presenza del corpo in movimento (mosso da ambizione e desiderio, aggressività e trasporto, sforzo e spasmo), è fin dall’inizio una differenza radicale rispetto all’originale, che segna profondamente questa riscrittura, intesa dal regista stesso esplicitamente come una cover, un omaggio più che un rifacimento.

Ma si potrebbe parlare anche, date le tematiche in gioco, di una vera propria possessione del film d’allora, come se della pellicola scritta da Dario Argento e Daria Nicolodi rimanesse solo l’ossatura, e il demone creativo di Guadagnino penetrasse, gioco forza snaturando e trasfigurando l’anima stessa della storia, iniettandone l’essenza disturbante in un corpus autoriale alieno. Così che questo coup de foudre per il modello riserva, sotto la superficie (e oltre lo specchio), un sostanziale coup de théâtre nel risultato, e sembra materia più per demonologia che per ermeneutica. Tanto varrebbe un esorcismo, allora, in vece di un’interpretazione.

La scena del primo vero e proprio provino della giovane ballerina per la parte principale del balletto chiamato Volk (concepito, non a caso, nel primissimo dopoguerra, sulle ceneri del Nazismo), con un montaggio parallelo molto efficace (ancora firmato, come in Call Me by Your Name, da Walter Fasano), vede la concorrente che sta spodestata e ribelle, gettata e rinchiusa da forze soprannaturali in una sala di specchi, un altrove che comunica a distanza con la performance ansimante, lancinante e insieme quasi erotica di Susy, mostrando la forza mefistofelica dischiusa dal luogo e evidentemente già insita nella nuova arrivata (le zone nascoste non appartengono solo al palazzo). La rivale resta invece preda e succube del suo corpo, annebbiata da lacrime forzose prima, e poi obbligata da una potenza oscura e ingovernabile a contorcersi e distorcersi a comando, come fosse in mano a una violenza in grado di strapparne i tessuti vivi e spaccarne le ossa, riducendola al ruolo di una marionetta macabra. La danzatrice viene piegata da una forza sadica fantasmatica e soverchiante che, emanando dalla potenza del ballo della giovane promessa, ne fa letteralmente carne da macello e tela per un tableau vivant che pare fuoriuscito dalle fantasie più disturbanti di un Francis Bacon. Il cinema come crudele forma di telecinesi?

Ma sondiamo ancora le differenze (apparentemente) superficiali e più evidenti, a partire del colore del sangue, che si riflette nell’approccio radicalmente opposto al décor, e alla visione del mondo, dei due film: se quello di Argento brilla di una luccicanza laccata quasi astratta (più liquido di smalto che salsa ketchup), esaltata dal Technicolor TriPack di Luciano Tovoli, costruendo la linfa e la tinta di una scena sospesa e fiabesca che accoglieva la giovane danzatrice di bianco vestita in arrivo da New York.

La Friburgo sferzata da una tempesta Sturm und Drang, le minacciose sliding doors da attraversare, e una foresta in cui è necessario smarrirsi disegnavano uno spazio scenografico deformato e stregato, sospeso. Guadagnino lavora invece, grazie alla fotografia del thailandese Sayombhu Mukdeeprom (già suo collaboratore nel film precedente), a una fotografia livida e sporca, dando presenza a una Berlino fassbinderiana (molte attrici comprimarie sottolineano questa parentela), la cui scena, buia e cupissima, è significativamente spostata nella capitale della Germania divisa.

Qui il rosso liquido vitale, come ogni altra cosa, è più scuro e realistico, ha il colore della ruggine, e riverbera con parsimonia, nella chioma ramata che sboccia dalla plumbea uniforme della giovane protagonista (che fugge, attratta dalla danza e rinnegata dalla madre, da una comunità Amish dell’Ohio), poi passando attraverso le corde vermiglie che, sadico fil rouge, legano il nudo corpo di ballo, come nella pratica giapponese dello Shibari, tecnica di prigionia trasmigrata in erotica del bondage, per esplodere infine nel trionfo gore e grand gu(ada)gn(in)ol(esco), in vena di purpureo delirante action painting, per la resa dei conti (con un finale che sembra rimandare alla posa oscena di Abu Ghraib).

In questo rinato Suspiria siamo nel 1977 (l’anno d’uscita del film ispirazione), e l’edificio della scuola (in realtà un albergo, sorta di Overlook Hotel abbandonato e decadente scovato dal regista appena sopra Varese) è posizionato simbolicamente al confine della parte Ovest, attaccato al muro che ferisce la città all’epoca della Guerra Fredda. Siamo nel cuore dell’autunno tedesco, epoca attraversata dai fantasmi della memoria mai definitivamente elaborata della Shoah (in quel processo che i tedeschi chiamano Vergangenheitsbewältigung) e dai fermenti rivoluzionari della Rote Armee Fraktion (scontri di piazza e tante bombe, il rapimento del capo degli industriali ex SS e il dirottamento di un aereo della Lufthansa, i suicidi collettivi dei terroristi/prigionieri politici), declinazione germanica della lotta armata che esprimeva in quegli anni, anche in Italia, tutto il suo carico di violenza, insita nelle contraddizioni della società e trasfigurata dal delirio ideologico. E Guadagnino non manca di rimarcare con insistenza questo contesto di terrore, sottolineando che il peggio, che sembra sempre già stato, è destinato fatalmente a riemergere.

La pioggia è una piaga meno violenta che nell’apertura in piena del film d’Argento: se lì era esondazione apocalittica esaltata dalla mitica colonna sonora dei Goblin, qui si tratta piuttosto di un supplizio costante, stillicidio che avvolge lo spazio urbano di un grigiore umido e pervasivo. In questo senso anche la colonna sonora firmata da Thom Yorke (frontman dei Radiohead) lavora su un’atmosfera più rarefatta e meno gridata di quella di allora (sulla dialettica ferocia e delicatezza si leggano, del resto, le frecciatine che si mandano a distanza Argento e Guadagnino, neanche troppo fra le righe). Rispetto all’antirealismo fiabesco e archetipico dell’originale, questo Suspiria si immerge dunque pienamente nella Storia, forse con qualche subplot e sottolineatura di troppo, ma con il merito di mostrare l’orrore che segna, e può segnare in ogni tempo, la vicenda umana.

Insieme a David Kajganich, già sceneggiatore di The Big Splash (2015), showrunner della serie The Terror e specialista di horror, Guadagnino decide poi di creare e dare peso determinante a un personaggio che non compariva nel film di trent’anni fa, il dottor Joseph Klemperer (letteralmente: colui che aggiusta e rattoppa). Vecchio psicanalista (interpretato dal non attore Lutz Ebersdorf che, ricordando un po’ il Max von Sydow/padre Merrin dell’Esorcista, nasconde neppure troppo, sotto qualche strato di cerone, il volto stesso della Swinton), il medico accoglie con scetticismo, proprio in apertura del film, il grido d’allarme di una giovane ballerina sulla natura stregonesca che si celerebbe dietro la scuola di danza, derubricando il panico della donna alle frustrazioni di una paranoica. Tuttavia è presto costretto a scoprire che il delirio non è che “una bugia che dice la verità” (buona definizione di fiction, fra l’altro). Il vecchio terapeuta, Jung sul tavolo a ricordarci l’inconscio collettivo e Lacan che passa in città non per caso, è attraversato dalla mancanza e dai sensi di colpa nei confronti di una moglie persa durante gli ultimi anni della guerra, parte affidata a quella Jessica Harper, l’originale di Susy, che in un’apparizione/miraggio porta il vecchio professore a guardare negli occhi quel materno rimosso e negato, che riprende vita, e morte, fra le mura e nei sotterranei della vecchia scuola Markus (si cerchi lì il terzo ruolo della Swinton). Quella mitologia delle tre Madri (dell’oscurità, delle lacrime e dei sospiri) della cosmogonia nera di Thomas de Quincey, che già aveva ispirato Argento, prende qui nuovo corpo e declinazione, in un’interpretazione divergente e aperta, che racconta di un femminile insieme generativo e devastante, politicamente in lotta al suo interno, affidando alle donne un potere non ridotto a una banale istanza vittimistica e rivendicativa, ma con dentro tutti i germi spaventosi dell’invidia e della vendetta. Le streghe di Guadagnino raccontano un universo conflittuale e contraddittorio, la cui gestazione è fonte di vita e riserva di dolore, strumento di libertà e consapevolezza mortifera.

Eppure un piccolo scampolo di speranza, quel cuore che, quasi illeggibile, permane inscritto su un vecchio muro, a ricordare l’amore che fu (per sempre), isolato dalla sola macchina da presa, sul quale lo sguardo contemporaneo del regista si posa nel finale, insieme a quella carezza che, oltre i titoli di coda, Susy riserva allo sguardo paziente degli spettatori rimasti in sala, segna uno spazio simbolico, per quanto residuale, che rappresenta una possibilità, come il “bocciolo di rosa” di Orson Welles, scritta che permane sotto la neve, sopravvive oltre ai cancelli di ruggine del tempo, resiste al di là delle fiamme degli umani errori e orrori.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

 

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