Al teatro Elfo di Milano va in scena “L’acrobata” di Laura Forti. La scrittrice e regista fiorentina, acclamata drammaturga, porta lo spettatore dentro a una storia di famiglia che s’interseca con alcune delle tragedie della Storia del secolo scorso – La recensione

“Ogni riferimento a fatti e alle persone che li hanno compiuti è autentico”. Non è soltanto il più vecchio e duraturo degli stratagemmi del coinvolgimento spettatoriale – “tratto da una storia vera” – quello che Laura Forti, scrittrice e regista fiorentina acclamata drammaturga, utilizza per portarci dentro a questa (sua) storia di famiglia che s’interseca con alcune delle tragedie della Storia del secolo scorso (L’acrobata è in scena all’Elfo di Milano, sala Fassbinder fino al 4 febbraio).

Si tratta infatti di una vicenda epica e intima insieme, ricostruita puntualmente e narrata in libertà, scoperta dall’autrice in parte nel cammin della scrittura, di una famiglia ebrea fuggita dall’Italia delle leggi razziali verso il Cile, dove le promesse d’emancipazione di Salvador Allende sono poi ribaltate nel sangue dal putsch di Pinochet. Il cugino della drammaturga, José Valenzuela Levi, detto Pepo, si rivela il comandante Ernesto, protagonista di un fallito attentato al dittatore sudamericano, per divenire infine vittima della furia vendicatrice del capo militare, culminata nella Matanza del Corpus Christi, resa dei conti sanguinaria in cui fu trucidato il commando dei tirannicidi.

“Ogni parola, ogni pensiero di quelle persone è un’idea, un’immaginazione, una speranza”: ecco che raccontare ideali e cadute, eroismi e gesta dimenticate o misconosciute del Novecento, attraverso la testimonianza prossima di chi ha vissuto quei frangenti e quegli abissi, è un’istanza di poetica forte, e l’autenticità una cifra necessaria per capire e trasmettere, commemorare e vivificare. In questa materia vera e dolente, carne che prende voce di madre, è inscritto questo testamento narrato (“I ricordi sono come schiaffi, sono zavorra e c’è il rischio che ti facciano affondare”), portato bene, e letteralmente, alla luce dalla scenografia intonsa e camaleontica su un palco essenziale e messo in scena con regia misurata ma creativa da Elio De Capitani (che si ritaglia il ruolo in immagine del nonno: mago con vocazione escapologa, maestro del viaggiare leggeri). Questo dipanarsi passionario e disperato della memoria, in forma di e-mail di una madre-nonna al nipote artista e senza padre, un clown triste che aspira a essere acrobata (Alessandro Bruni Ocaña, nel doppio ruolo di figlio e nipote), invade lo spazio riflettente di tre pareti bianche, palinsesti di ricordi, documenti, veli e rivelazioni.

La “quarta parete”, quella che separerebbe invisibilmente il pubblico dalla scena, è da subito violata dallo sguardo interpellante e inesausto di Cristina Crippa, nel ruolo dolente e determinato della madre di Pepe, oltre le mura, sporgendo la sua chioma fiammeggiante come sull’oceano di un transatlantico, racconta la sua verità sospesa fra due mondi, continenti distanti e spazi confinanti di fantasia e realtà. E il mare di luci e ombre dei ricordi è riversato sulle pareti linde e cangianti dalle immagini (une, trine, ubique) realizzate da Paolo Turro, che interagiscono ed echeggiano in quadri luminosi che a tratti avvolgono e travolgono, in alcuni momenti fino a esiliarli, i due corpi che si agitano sul palcoscenico, ora illuminati, altrove inghiottiti da fessure e inquadrati da porte. Questo cono di luce che trapassa in direzione opposta la quarta parete – occhio di bue, fiocchi di neve, spume del mare, ombre cinesi, titoli cubitali, bandiera luminescente e fantasma documentario – non serve a stupire con effetti speciali, ma rende con forza come il meccanismo proiettivo e fantasmatico delle memoria ci riguardi, chiamando in causa noi e il nostro sguardo come fonte e necessità profonda per poter fare luce, con la potenza mimetica di quella lanterna magica del secolo passato che ha nome cinema.

Ma il valore civile del teatro non rinuncia qui all’arte della messa in scena e alle corde dell’emozione per appiattirsi su un realismo didascalico e concettoso, teso a soltanto a documentare e denunciare. Non c’è infatti modo per affrontare la crudeltà del mondo e il suo nucleo nascosto, sembra dirci questa storia, che la poesia del circo e la potenza evocatrice della rappresentazione, né altro modo per guardare in faccia la durezza della realtà, e le sue lacrime, che il potere salvifico delle illusioni. E proprio i giochi di prestigio, apparizioni e sparizioni, gli equilibri precari e i fiati sospesi di un acrobata in volo (metafore continuamente evocate ma mai abusate), raccontano con maggiore precisione, efficacia e verità quello che il lavoro dello storico più puntuale si sognerebbe di cogliere, i moti più veri e profondi dell’animo umano, le sue possibilità espressive, trasformative e di fuga, le risorse di travestimento, sentimento e piroetta, coraggio e abbandono, gli stratagemmi di commozione, gli spostamenti d’attenzione, la levità che, mentre ci consentono di parlare del nostro passato senza venirne travolti, sono ancora risorse indispensabili per capire il presente, e sperare di cambiarlo.

L’AUTORE: qui tutte le recensioni e gli articoli di Matteo Columbo per ilLibraio.it

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