La poesia fu il “peccato di gioventù” di Thomas Bernhard. L’uscita di una raccolta postuma (un bigino romantico e caotico della più alta letteratura bernhardiana), in cui non mancano suggestioni pavesiane, echi di Pound ed Eliot, e dove il tema ricorrente è la morte (non a caso, sullo sfondo, la natura è sempre crudele e mortifera), diventa l’occasione per riflettere sull’opera del grande scrittore e drammaturgo austriaco

«I versi del poeta innamorato non contano»: a dar retta a Ennio Flaiano, le liriche di Thomas Bernhard andrebbero archiviate o, peggio, cestinate. Non che Bernhard sia mai stato innamorato – figuriamoci! –, ma certo nei suoi versi si lascia andare a un insolito (per lui) sentimentalismo, a uno struggimento fin svenevole, a una stucchevole tristezza.

Già il titolo dell’ultima raccolta riesumata fa rabbrividire: Sotto il ferro della luna, dal nome del primo dei 56 componimenti dati alle stampe nel 1958 e da qualche mese editi anche in Italia per i tipi di Crocetti (pagg. 134, € 12,00). Tradotta da Samir Thabet, questa minuta antologia poetica è la terza sfornata dal giovane Bernhard, che esordì nel ’57, a 26 anni, con Sulla terra e nell’inferno, cui seguirono In hora mortis (1958; SE 2002), I folli. I forzati (1962) e Ave Virgilio (1981; Guanda 1991). Dopodiché Amen, se si esclude una «raccolta rifiutata da Otto Müller (un nome importante per la lirica austriaca del Novecento, tra l’altro legato all’opera di Trakl) rimasta in gran parte inedita», informa Luigi Reitani nel breve saggio L’arte dell’«Ars moriendi», posto a prefazione di In hora mortis.

Sotto il ferro della luna (Crocetti)

La poesia fu il peccato di gioventù di Thomas, ma i versi, si sa, sono cose da ragazzi. Anche Benedetto Croce sosteneva che «fino a 18 anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini». Della mediocrità dei versi si accorse l’autore per primo, laddove ne Il freddo, uno dei cinque volumi della presunta Autobiografia (etichetta riduttiva, se non furba, affibbiata da alcuni editori), scrisse: «Mia madre era stata costretta ad ascoltare le mie poesie, io l’avevo sottoposta a un ricatto, avevo la certezza che le mie poesie fossero buone, prodotti di un diciottenne disperato che sembrava non avere più nulla all’infuori di quelle poesie. Già a quell’epoca (…) abusavo del mondo intero per trasformarlo in quei versi, quei versi, se pur privi di valore, significavano tutto per me, niente al mondo aveva per me maggior significato, e io non avevo più niente, non avevo altro che la possibilità di scrivere poesie».

Per Reitani, «le “centinaia e centinaia” di poesie scritte dall’autore diciottenne appaiono uno sforzo grottesco, in cui il valore estetico dei testi viene liquidato sommariamente», anche se, alla fine, «la poesia di Bernhard – con tutti i suoi limiti estetici – merita di essere riesaminata, e non come semplice tappa giovanile». Sotto il ferro della luna, sui quotidiani nazionali, ha suscitato dicotomiche reazioni di amore e odio: Nicola Gardini, ad esempio, ha encomiato l’opera dalle colonne della Domenica del Sole 24 Ore, mentre Massimiliano Parente su Il Giornale l’ha stroncata con sarcasmo, paragonando addirittura Bernhard a Sandro Bondi, lui sì poeta innamorato e zuccherino.

La bontà di questa raccolta postuma non sta affatto nella sua fattura letteraria, quanto nei suoi contenuti ossessivi: quei tre o quattro quarti di luna bernhardiani che di lì a qualche anno sostanzieranno la sua superba produzione narrativa e teatrale, dall’esordio nel ’63 con il romanzo Gelo (Einaudi 1986) all’ultima pièce Piazza degli eroi (Garzanti 1992), scritta nel 1988, un anno prima di morire, ed ennesimo j’accuse contro il proprio Paese, l’Austria, in cui «ci sono più nazisti oggi che nel ’38». Già nelle liriche giovanili lo scrittore se la prendeva con i suoi concittadini, il ributtante popolo nazionalsocialista, «impenetrabile, senza mare e senza coscienza». Tuttavia, l’indiscussa prim’attrice del vasto repertorio di Bernhard, di prosa e di poesia, è la morte, che sempre lo accompagna come uno «strascico», dice lui, o come un «vizio assurdo», diceva quel Pavese da lui tanto amato (con licenza poetica sulla parola “amore”).

Oltre alle suggestioni pavesiane, nei versi rimbombano echi di Pound ed Eliot, e su tutti incombe la natura crudele e mortifera, con il suo freddo inclemente, la ferita dell’inverno, la neve, il bosco uggioso, la tenebra, la disperazione, il colloquio con i morti, i silenzi coi parenti: «Quanta fatica per una parola/ a mio padre e a mia madre/ quanta fatica per una parola…». Volendo, questa raccolta è un bigino romantico e caotico della più alta letteratura bernhardiana: una rubrica, un vocabolario di lemmi ricorrenti e ossessioni “ricorsive primitive”, benché buttate alla rinfusa, non ancora sistematizzate e soprattutto non ancora passate al coltello dell’ironia, molto più affilato e chirurgico del «ferro della luna». Fu solo all’inizio degli anni Sessanta che il muriatico austriaco si sbarazzò, con un certo imbarazzo, delle sue scartoffie giovanili, e su queste calò definitivamente il Gelo: «Questa poesia è istantanea. E quindi non esiste. È la mia poesia». Parola di Thomas Bernhard, maledetto poeta.

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