“Finché sarò tua figlia”, il thriller d’esordio di Elizabeth Little, racconta di un presunto matricidio e di una figlia che, una volta uscita di prigione, vuol far di tutto per essere ciò che sua madre ha sempre desiderato… – Un estratto

Janie Jenkins, 28enne reduce da 10 anni di carcere in isolamento. Quella che al liceo era la reginetta viziata di Beverly Hills, ha scontato la pena per avere ucciso sua madre Marion, una donna esigente con cui aveva un rapporto non proprio idilliaco. Essere un’adolescente ribelle e contestatrice con una madre che non nasconde la delusione del fatto di non avere una figlia perfetta, può portare all’omicidio?

Janie ha sempre saputo di essere innocente. Ricorda poco della notte dell’omicidio in cui era stata trovata priva di sensi e con le mani sporche di sangue accanto al cadavere di sua madre, sa solo di averla sentita avere un alterco con uno sconosciuto e rammenta un nome, Adelina. Adesso che il suo avvocato è riuscito a farla uscire di prigione, Janie non ha dubbi, deve scoprire cosa è successo per dimostrare, soprattutto a sé stessa, di non essere colpevole.

Il suo percorso per diventare la figlia che Marion ha sempre sognato inizia da Adelina, una città dell’Illinois che nasconde tutte le risposte che lei cerca, non solo su sua madre, ma anche sulla sua vera identità… 

Finché sarò tua figlia è l’esordio di Elizabeth Little (in libreria per Garzanti), un thriller psicologico inquietante.

finchè

Un estratto del romanzo (per gentil concessione di Garzanti)

Da: CNN Breaking News <BreakingNews@mail.cnn.com>
Oggetto: CNN Breaking News
Data: 17 settembre 2013 10.43.01 ora legale della costa orientale
A: textbreakingnews@ema3lsv06.turner.com

Un giudice della California ha annullato la condanna a Jane Jenkins per omicidio di primo grado a causa di irregolarità nel trattamento delle prove compiute dalla polizia scientifica della contea di Los Angeles fra il 2001 e il 2005. Jenkins, ventisei anni, era stata condannata nel 2003 per l’assassinio della madre, la nota filantropa svizzero-americana Marion Elsinger. Dopo dieci anni, Jenkins è comparsa per la prima volta in pubblico stamattina, a Sacramento, quando è stata condotta in aula. La stampa non ha avuto accesso all’udienza, che si è svolta a porte chiuse. Jenkins verrà liberata nella giornata di oggi. Interrogato all’uscita dal tribunale su quali siano i piani futuri della sua assistita, l’avvocato Noah Washington non ha rilasciato commenti.
Non appena decisero il mio rilascio, Noah e io entrammo subito in azione. Cambio d’abiti. Parrucca. Auto poco appariscente. Tornammo un paio di volte sui nostri passi, poi ci dirigemmo verso sud quando in realtà intendevamo andare a est. Una ragazza che mi assomigliava avrebbe preso un aereo a San Francisco diretta alle Hawaii. Oh, pensavo di essere un sacco furba. Ma probabilmente hai già capito che non lo sono affatto. Su, dài, non avrai creduto che mi sarei limitata a sparire, vero? Pensavi che mi sarei rintanata da qualche parte a vivere nell’ombra? Che mi sarei trovata un’isola remota, un chirurgo plastico, una mezza maschera di ceramica bianca e un laccio del Punjab? Metti i piedi per terra, non sono il Fantasma dell’Opera! Non avrei mai pensato che le cose sarebbero arrivate fino a questo punto. C’è un tipo di attenzione e poi ce n’è un altro, e quest’altro ti procura fama, soldi e scarpe griffate gratuite, ma io non sono Lindsay Lohan. Capisco il concetto di «rendimenti decrescenti». Non sapere: ecco la cosa che mi scocciava. Ecco perché sono qui. Lo sapevi che quanto più dettagliati sono i ricordi tanto più si estende la propria percezione del tempo? Sul serio. Sono stati fatti studi e pallosità simili al riguardo. Anche se non possiamo correre più veloci della morte, almeno, se rimpolpiamo i ricordi, la vita sembrerà un pochino più lunga.
Cioè: moriremo comunque, ma avremo vissuto di più. Dà un po’ di conforto, non ti pare? A meno che, naturalmente, tu non sia me. Immagina come ti sentiresti se, da un momento all’altro, ti porgessero una medaglia d’oro e ti dicessero che è tua. “Diavolo”, penseresti, “sono fenomenale! Ho vinto le Olimpiadi. Ma, un attimo… che cosa ho vinto? Quando l’ho vinta? Quando mi sono allenata? I miei bicipiti non dovrebbero essere sviluppati come quelli di Madonna? Come potrei dimenticare il momento più importante della mia vita? E nel caso, perché l’ho dimenticato?” Adesso immagina che invece di una medaglia d’oro ti abbiano dato una condanna per omicidio, e ti farai un’idea della mia situazione. Quando ripenso alla notte in cui è morta mia madre è come se tentassi di sintonizzare un’antenna TV a orecchie di coniglio per captare un lontano segnale di trasmissione. Di tanto in tanto qualcosa si mette a fuoco, ma in genere ottengo solo il brusio di un’interferenza, un impenetrabile muro di nebbia. A volte non c’è nemmeno l’immagine. A volte non c’è nemmeno il televisore. Se la mattina dopo avessi avuto un attimo per fermarmi a pensare, forse avrei potuto fissare nella memoria un paio di dettagli utili, ma la polizia mi trascinò fuori di casa, mi caricò su un’auto di pattuglia e via di corsa alla centrale prima che avessi il tempo di preoccuparmi di cosa avevo addosso, figurarsi di ciò che potevo aver fatto. All’ora di pranzo mi trovavo nella saletta degli interrogatori, intenta a togliermi sangue secco da sotto le unghie, con due poliziotti che mi spiegavano cosa dovevo scrivere nella confessione. Non che li biasimi, no. Ero perfetta come colpevole. Poi c’è stato il processo, che non aveva niente a che vedere con quanto sapevo io, ma piuttosto con ciò che altra gente aveva deciso io sapessi, e ci ho messo poco a perdere la capacità di distinguere fra le due cose. Adesso mi ritrovo con una memoria che è un casino, un ammasso di testimonianze rabbiose, miei profili tracciati dalla stampa bigotta all’insegna dell’ipocrisia, film prodotti per la TV: una narrazione meno lineare di un trailer di True Hollywood Story. Non so più cosa ci sia di mio lì dentro. E poi ci sono le prove. Le sole impronte nella stanza di mia madre: le mie. Il solo DNA sotto le unghie di mia madre: il mio. Il solo nome scritto con il sangue accanto al corpo di mia madre: decisamente il mio.
(Giusto. Probabilmente non conoscevi questa parte della storia, eh?) È già di per sé difficile sostenere la mia innocenza quando tante persone sono così convinte che sia colpevole. Ma diventa impossibile se non sono sicura di un bel niente… salvo del fatto terribile e ineludibile che non provavo una grande simpatia per mia madre.
L’incertezza mi divorava, come vermi che scarnificavano il cadavere già in decomposizione del mio cervello. E in prigione, impossibilitata a svolgere qualsiasi vera indagine, non potevo fare altro che pormi domande. Presi a trattare ogni azione quotidiana come un presagio, una sfera di cristallo, gli intestini di una capra. Come si sarebbe lavata i denti un’assassina? Come si sarebbe spazzolata i capelli? Avrebbe messo zucchero nel caffè? Latte nel tè? Avrebbe fatto un solo nodo alle stringhe delle scarpe? Due? Sto scherzando naturalmente. Come se potessi avere delle stringhe in carcere! Di tutte le prove imposte dalla detenzione, questa era forse la peggiore: ero una creatura fondamentalmente razionale ridotta a fare rudimentali divinazioni. Promisi a me stessa che, se mai fossi uscita di là, avrei cercato di scoprire cos’era veramente accaduto, chi ero veramente. Ignorai quella vocina che mi diceva che l’unico modo per conoscere con certezza la verità era uccidere di nuovo.
<Messaggi Noah Contatti
Martedì 17.14
SMS. Funziona il nuovo telefono?
Hai ricevuto questo messaggio?
(Sono Noah.)
Che cazzo è
Si chiama SMS.
Lo so cos’è ma non so perché stai facendo questa roba
Ho bisogno di essere sicuro di poterti raggiungere.
Come dire che la gente non si parla più
Benvenuta nel futuro.
Posso tornare in carcere adesso?
Adattarsi o morire, Jane.
🙂
L’ultimo martedì di ottobre, sei settimane dopo essere uscita di prigione, mi trovavo di fronte a uno specchio in un albergo di Sacramento. Parevano ore che me ne stavo lì a giocare con i miei capelli come una squinzia in fase preadolescenziale, cercando di radunare il coraggio per tagliarli e colorarli. In prigione i capelli erano tutto ciò che avevo, l’unica cosa rimastami che faceva di me me. Ma era anche una bella rottura di scatole tenerli in ordine: per anni i soli articoli per l’igiene personale di cui potevo disporre erano bustine di shampoo annacquato non più grandi delle confezioni di ketchup che ti danno da McDonald’s. Altre ragazze sognavano sesso o droghe o sigarette; io avrei dato il rene sinistro in cambio di un po’ di Pantene. Mi sarei risparmiata tante seccature se li avessi rasati, tagliati, bruciati, ma non lo feci: la vanità rappresentava già il mio lato più vulnerabile in assoluto. È da dilettanti preoccuparsene. Solo che non potevo farne a meno. Mi pettinai i capelli bagnati facendovi scorrere le dita. Dopo tutto il da fare che mi ero data, avevano ancora la consistenza di un mucchio di peli sputati da un gatto. Aggrovigliati. Appiccicosi. Mi scendevano fino alla vita in un ammasso di ciocche selvagge e doppie punte. Strofinai il palmo sudato sulla mia immagine nello specchio, come una Liz Taylor che impiastriccia l’obiettivo della cinepresa. Non mi fece sentire meglio. Lasciai perdere. Con l’idea di non farmi sentire ingabbiata, Noah mi aveva trovato una suite in uno di quegli hotel executive per soggiorni prolungati: diciotto metri quadri di beige su beige ingombri di mobili «moderni» e disseminati di dépliant che decantavano i comfort dell’hotel. Internet! TV via cavo! Posate! Era incontestabilmente il luogo più bello in cui avessi vissuto da anni.
(E lo odiavo. Troppo spazio. Troppe finestre. Troppi cuscini. La vasca da bagno era l’unico posto dove potevo dormire, non che al sonno dedicassi granché del mio tempo. I luoghi piccoli erano confortanti come un abbraccio… o forse dovrei dire una camicia di forza?) Feci la gincana in un assembramento di tavolini imitazione Noguchi e mi lasciai cadere sul divano per mettermi al passo con le notizie. Da quando ero arrivata, la televisione era rimasta costantemente accesa: ogni ora mi sintonizzavo su HLN prima di scorrazzare sugli altri canali: MSNBC, CNN, Fox. Se mi sentivo masochista facevo anche una capatina su E!. Dopo più di un mese, la maggior parte dei servizi giornalistici erano più speculativi che investigativi, ma era proprio la congettura che volevo. Niente distrugge un piano bene architettato come un colpo di fortuna. Appoggiai i piedi sul tavolino di fronte. Era notte fonda e le reti televisive avevano smesso di interessarsi a cose importanti; la notizia del giorno ero io. I lineamenti aggressivamente simmetrici della commentatrice e la sua espressione arcigna facevano a pugni con la sua posa da reginetta di bellezza. Nonostante il piglio, però, la sua fronte era levigata come una saponetta di glicerina. Doveva avere almeno due anni meno di me. Mi strofinai la fronte e pensai al botulino. La bocca da pesce della donna si stava muovendo. Alzai il volume. «Sono oggi sei settimane che è stata rilasciata Jane Jenkins, condannata all’ergastolo dieci anni fa per l’assassinio della madre. Un giudice ha revocato la sua condanna e altre otto in seguito a quanto emerso da un’indagine sulla deliberata manipolazione delle prove da parte della polizia scientifica di Los Angeles fra il 2001 e il 2005. Malgrado la delibera del giudice, in grande maggioranza l’opinione pubblica americana continua a essere convinta della colpevolezza di Jenkins: da un sondaggio condotto la scorsa settimana dalla McClure Post/ABC News risulta che l’87 per cento degli interpellati “è profondamente convinto” che Jenkins sia la responsabile dell’assassinio della madre.» Ci scommetto una Birkin di coccodrillo che il restante 13 per cento «è più che profondamente convinto» che io sia colpevole. «Non è perciò sorprendente che, da quando è stata rilasciata, Jenkins non si sia ancora mostrata in pubblico, anzi, non abbia nemmeno fornito qualche indicazione su dove attualmente si trovi. Jenkins, però, se spera di poter ricominciare da zero, potrebbe restare delusa: oggi il blogger di cronaca nera Trace Kessler, che dal 2003 segue il caso, ha annunciato una ricompensa di cinquantamila dollari a chi fornirà informazioni utili per risalire all’attuale domicilio di Jenkins…» Frugai dietro il televisore e staccai la spina; avrei voluto poter fare altrettanto con Internet. Tamburellai con un’unghia mangiucchiata contro il mio riflesso sullo schermo diventato nero. Trace Kessler. Più che una spina nel fianco era un cappio al collo. Sapevo che non avrebbe esitato un attimo se avesse avuto l’opportunità di stringere quel cappio. “Piantala. Basta temporeggiare.” Andai nell’angolo cottura dove avevo riposto il set di tre paia di forbici multiuso portatomi da Noah l’ultima volta che era passato di qui. Le forbici erano affilate come il cervello di uno ubriaco a metà mattina: quando le testai sull’interno del braccio lasciarono una traccia rosea e asciutta, quasi invisibile. Inconsciamente, digrignai i denti. Tentai di dirmi che probabilmente Noah lo considerava un compromesso. Conoscendolo, ero fortunata che non mi avesse propinato delle forbici con le punte stondate. Quando gli avevo accennato al fatto che volevo tagliarmi i capelli si era fatto di sasso, tanto che persino la zona azzurrognola sotto i suoi occhi era diventata perfettamente immobile, come se gli avessi espresso un interesse per le armi all’uranio o per le api da miele trasformate in zombie. «Non sono sicuro che sia una buona idea», aveva detto, perché alla fine della giornata Noah Washington era incline al melodramma. Avevo alzato gli occhi al cielo. «Non ti chiedo una lametta da barba.» «Non lo faresti. Troppo ovvio.»
«Troppo banale», avevo corretto, perché alla fine della giornata ero anch’io incline al melodramma. Presi in un armadietto del cucinino un mug da caffè e lo capovolsi per affilare le forbici contro l’orlo ruvido del fondo. Era un trucco che avevo pescato nella poco saggia sezione «vita all’aperto» della biblioteca della prigione. Sfregai le lame avanti e indietro sulla ceramica color avorio e sentii la mia irritazione placarsi, blandita dalla ripetitività del gesto, dal sommesso raschiare della lama. Tornai in bagno con le forbici, afferrai una matassa di capelli e la tirai per tenderla. La mia chioma cominciava ormai ad asciugarsi, arricciandosi e increspandosi, una cosa che faceva impazzire mia madre. Aveva sempre tentato di convincermi a legarmi i capelli: una coda di cavallo, una crocchia, uno chignon. «Saresti così elegante se solo provassi», mi disse una volta in uno dei suoi rari momenti di ottimismo materno. Mentre mi guardavo fissa allo specchio, le mie mani sollevarono l’intera massa di capelli e l’attorcigliarono sulla sommità del capo. Questa acconciatura faceva sembrare il collo più lungo, la mascella più delineata, gli occhi più brillanti: anche nella luce tremenda del bagno di quell’albergo mi rendevo conto che mia madre aveva avuto ragione. Forse, dopotutto, non ero un orrore. “’Fanculo. Sono solo capelli.”
(Continua… In libreria)

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