Tik Tok, il social network che spopola tra i ragazzini, sembra avere qualcosa di diverso dagli altri. Da un lato, c’è chi argomenta che il comportamento degli utenti, incentivato dall’infrastruttura dell’app, sembra una reazione della Gen Z contro la cultura dei millennial. Dall’altro, invece, le ‘capriole algoritmiche’ di cui è capace sembrano accelerare verso un nuovo punto di svolta le dinamiche dei social a cui siamo abituati. – L’approfondimento

Se è vero che degli anni zero non rimarrà nulla, di quelli che abbiamo imparato a chiamare dieci qualcosa resterà; e a quanto pare sono i selfie. L’iperbole è apparente: è la selfie decade e nel nuovo normale dove la realtà supera, per precisione e per bizzaria, la finzione, il selfie sta per una cultura in cui l’identità si è presa il palcoscenico mentre diventava la principale risorsa da sfruttare del sistema economico.

Benvenuti in tempi interessanti, maledicono in Cina. Da dove arriva un vento nuovo o un futuro forse diverso. Tik Tok, il social dei ragazzini, dove gli adulti sembrano voler far colpo a una festa delle scuole medie (dice bene su Link Alice Valeria Oliveri).

Il social network che sembra avere poco in comune con gli altri. Che ha ritmi di crescita impressionanti. Che somma Instagram + anfetamine. Che non si capisce se farà parte del cimitero dei social dimenticati o se salverà il giornalismo e la democrazia, o se la distruggerà, cedendo i dati alla Repubblica Popolare Cinese. E, soprattutto, se sia un colpo di spugna al modo in cui abbiamo usato i social o una micro-rivoluzione che accelera dei processi latenti.

Tik Tok è fatto da video molto brevi, dai 15 ai 60 secondi, editati in maniera intuitiva, con risultati incredibilmente creativi. Si tratta di scenette, spesso lipsync di canzoni o dialoghi, dei quali Tik Tok ha un archivio sterminato dopo l’acquisizione di Musical.ly.

Minorenni che provano a essere sexy, ministri che fanno balletti, cuochi che affettano carote, gattini, molti gattini che entrano, spaccano, escono, ciao. I video sono intrattenimento puro, vale a dire cazzeggio conscio di essere tale. Il contrario, infatti, fa notizia, anche se la necessità di Tik Tok sarà di espandersi verso target con richieste più mature e maggiori capacità di spesa, come la sua controparte cinese, Douyin.

Tik Tok è di proprietà cinese, con quanto ne consegue – il silenzio sulle proteste di Hong Kong, la questione dei dati, le interrogazioni del Congresso americano. La società madre, ByteDance, controlla altre app diffuse in Cina, si occupa di intelligenza artificiale: ha alcune delle tecnologie più avanzate nel campo, secondo alcuni le più avanzate. ByteDance è valutata 75 miliardi di dollari, la più alta valutazione al mondo. Tik Tok ha raggiunto il miliardo di utenti in 3 anni. Facebook ce ne mise 9.

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A un primo accesso è chiaro che qui qualcosa è diverso. Per fruire dei contenuti di Tik Tok non è necessaria una registrazione. Sei immerso in un flusso con una capacità di catturare l’attenzione tra l’incredibile e l’inquietante. Pur potendo seguire dei profili, il feed offre contenuti che prescindono dai profili seguiti, selezionati da un algoritmo preciso fino alla distopia.

Della diversità di Tik Tok ha scritto Joshua Citarella, artista e scrittore classe ’87, che ne fa una questione culturale e generazionale. Il suo presupposto è che la Gen Z abbia un set emergente di valori non-millennial che si rifletterebbe nella loro attività online (si rifà al report GenExit). Tik Tok manifesterebbe un cambio di paradigma: i millennial stanno invecchiando e la Gen Z diventa la cultura dominante online; una cultura post-selfie e post-personal brand.

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(via GenExit)

Infatti – argomenta – Tik Tok ha un’infrastruttura sociale unica: i contenuti sono fatti per essere imitati dagli altri utenti. È progettato per facilitare la collaborazione e l’appropriazione dei contenuti nella forma del duetto. Da un punto di vista economico, come nota John Hermann sul New York Times, se il successo online si misura in termini di engagement, il modo in cui si creano contenuti su Tik Tok lo massimizza rendendo inestricabili creazione e interazione.

Da quello culturale, ogni Tik Tok si inserisce in un trend (gli hashtag sono un principio “reale, funzionale e organizzativo”) entro il quale l’utente usa il template (in Italia ha sbancato, per dirne una, #iosonogiorgia) di un video esistente e ne offre una sua interpretazione. “L’originale non conta” – scrive Citarella – “solo la tua versione”.

È molto diverso dall’uso di internet dei millennial. Se Instagram chiedeva ai suoi utenti di performare una versione in palette della propria vita, costruire un’identità che azzerasse la soglia tra realtà imperfetta e finzione di successo, Tik Tok chiede di unirsi al flusso; partecipare a una performance collettiva. Una “fabbrica interpersonale di attività memetica” fine a se stessa.

L’internet dei millennial è un ‘mercato delle identità’, in cui brand e persone si comportano allo stesso modo. L’equilibrio è la somma zero tra un cultura fondata sull’imperativo etico della ricerca di un’autenticità e la sua codifica nella lingua del marketing. “Per prosperare nel mercato delle identità ci viene detto che dobbiamo coltivare il nostro io più autentico e esprimerlo come un brand, attraverso un output mediale coerente, pubblico, multipiattaforma”. Creare un personal brand, accumulare follower, capitalizzare.

La Gen Z, secondo Citarella, si è accorta che il fake it ’till you make it, è una trappola. Sta abbandonando la coerenza narrativa del personal branding per un gioco di identità fluide. Se i Tik Tok sono insignificanti è perché riflettono un mondo in cui sono le azioni individuali a essere insignificanti e le nostre vite sono in realtà mosse da forze esterne. “L’azione politica ha fallito. Le proteste di massa hanno fallito. Perfino il capitalismo ha fallito” – conclude Citarella – “ i Tik Tok della Gen Z sono di un nichilismo gioioso, ridono in faccia a un mondo in cui l’autodeterminazione e la mobilità sociale sono collassate da un pezzo”. Comprano come se nessuno guardasse, memano come se i loro profili fossero privati, vivono come se fosse la fine del mondo (da GenExit).

Sul Guardian Wendy Sifret notava che, contro la versione classica del nichilismo, la versione zoomer del Sunny Nihilism sia anti-individualista: “Se il senso e il significato sono illusioni sopravvalutate, lo è anche ogni velleità di essere speciali o destinati a grandi cose. È un balsamo per un gruppo esaurito dietro l’eccezionalismo, la crisi economica, la performance dell’eccellenza e vivere la meglio vita su Instagram”.

Sifret cita Jia Tolentino, il qualcuno in cui riconoscersi di questo ethos (“If nothing matter, it feels like [it’s] a charte blanche to wilde the fuck out”). Anche lei, infatti, notava subito – sul New Yorker – che Tik Tok dal punto di vista degli utenti sia un’absurdist escape da un ecosistema mediale folle, ma considera anche il lato macchina. “Nella teleologia di Tik Tok – scrive – gli uomini sono messi sulla Terra per produrre buoni contenuti. E i buoni contenuti sono tutti quelli che vengono condivisi, replicati e che ne generano altri. Nella sua essenza la piattaforma è una grande fabbrica di meme, che comprime il mondo in frammenti di viralità che poi distribuisce finché non sei pieno o ti addormenti”.

Tik Tok non cambia il mondo un like alla volta, né trasforma la tua vita in una finzione estetica che si autoavvera. È onesto nel proposito di voler accumulare tutta la tua attenzione, e ci si riconosce una generazione senza illusioni. Ma, se da un lato la cultura degli utenti reagisce a quella precedente, dall’altro le sue dinamiche di funzionamento accelerano quelle a cui siamo abituati verso un nuovo punto di fuga. Se può fare a meno della tua rete sociale è perché può permetterselo: il futuro per Byte Dance sono large-scale AI models che determineranno il flusso di informazioni. Per Hermann è più machine-made che man-made: “l’algoritmo si prende il controllo senza chiedere scusa, al posto di fingere di non averlo”.

Tolentino si chiede se molto del nostro futuro non passi di qui. Se oggi i Tik Tok sembrano insignificanti, comunque la sua logica rende impossibile separare gli interessi dell’algoritmo dai nostri – e forse è proprio quello a cui ci stiamo preparando da un pezzo. Il futuro, verrebbe da dire, di sicuro sarà dei ragazzini. E di sicuro sarà delle macchine. Ma i ragazzini al futuro non ci credono, le macchine sì.

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