Intervista a Bruno Morchio autore di Le cose che non ti ho detto ISBN:9788811686033

L’investigatore Bacci Pagano è un uomo insieme complicato e semplice. Detesta le ipocrisie del potere ma anche il ricatto dei buoni sentimenti. Non sa dire di no alla richiesta di Mara, una delle donne della sua vita: deve tenere a bada le inquietudini del dottor Nicolò Ingroia, detto il Gigante, psicoanalista che vive sulle alture sopra Genova Nervi. Bacci avrebbe avuto più di un motivo per rifiutare l’incarico: non è il suo mestiere occuparsi di un alcolizzato che ha tentato il suicidio; e poi il Gigante l’aveva già incontrato vent’anni prima, quando indagava sulla morte di un suo giovane paziente misteriosamente ucciso in Thailandia. Così Bacci si trova quasi prigioniero in quella villa fatiscente: intrappolato dalle ossessioni del dottor Ingroia e dalle brusche attenzioni di sua moglie Carolina; e tormentato dal ricordo di un’indagine che non è riuscito a concludere. Tra memoria e presente, dall’Estremo Oriente ai carruggi della città vecchia, Bacci Pagano deve mettere alla prova tutta la sua tenacia, in una vicenda in cui all’odio e alla disperazione si oppongono l’intelligenza e la ragione, alla ricerca di una verità elusa e sepolta. Le cose che non ti ho detto è un romanzo raffinato e avvincente, dove il thriller è sostenuto da una acutissima tensione psicologica. Nei serrati duelli verbali tra Bacci e il Gigante, l’investigatore «analfabeta dei sentimenti» e lo psicoanalista allo sbando, spesso uno sguardo e un silenzio contano più delle parole. Magari persino una citazione di Proust. Bruno Morchio conferma il suo talento di narratore in grado di dare voce a una città irripetibile, dove si sfiorano e intrecciano di continuo mondi diversi: dall’alta borghesia chiusa nel suo orgoglio alla casbah di immigrati e prostitute, passando per la memoria di una metropoli industriale che non c’è più. Abbiamo parlato con lui del nuovo libro e della sua professione: lo psicoanalista.

D. Dopo la trasferta sarda Bacci Pagano torna nella sua Genova. È vero che questa scelta è stata fortemente voluta dai lettori?

R. A furor di popolo. Il romanzo precedente, ambientato in Sardegna, è stato accolto senza ambivalenze né sfumature: c’è stato chi lo ha molto apprezzato e chi è rimasto disorientato. Così in Le cose che non ti ho detto ho alzato il ritmo, introducendo più azione (i flashback su Bangkok e l’indagine nella casbah genovese) e ho riportato il detective a Genova, tra Sant’Ilario, lo stradone di Sant’Agostino e la casbah di Pré.

D. Tuttavia anche Le cose che non ti ho detto sembra un giallo atipico: Bacci Pagano è chiamato a fare l’infermiere di uno psicoanalista alcolizzato.

R. Resta una storia noir piuttosto che un giallo classico. Tuttavia un’indagine c’è e, come sempre, Bacci la conduce senza risparmiarsi. Il fatto è che per lui vale la tesi gramsciana sul pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà: un conto è perseguire la verità, un altro credere nella giustizia.

D. A proposito della verità, nel romanzo c’è una specie di braccio di ferro tra l’investigatore e lo psicoanalista che, specularmente, cercano di leggere le rispettive verità nascoste.

R. È proprio così. E, quanto più vi si avvicinano, tanto più scatenano l’ira dell’altro. La stessa reazione di Edipo nella tragedia di Sofocle.

D. Il dottor Ingroia a un certo punto, dice: «La psicoanalisi è moribonda». Lo pensa anche lo psicoanalista Bruno Morchio?

R. Il romanzo è un elogio della psicoanalisi, perché attraverso la metafora narrativa esalta due elementi che la caratterizzano: il valore terapeutico della conoscenza di sé e il riconoscimento della sofferenza come prodotto di una mistificazione della verità storica, che deve essere ripristinata se si vuole ritrovare un senso della vita. È anche un omaggio (dichiarato) allo psicoanalista, allievo e amico di Freud, che per primo ha creduto in questo compito difficile e scomodo: Sandor Ferenczi.

D. Si potrebbe allargare il discorso: oggi l’idea che la conoscenza contribuisca a curare non convince quasi più nessuno.

R. Oggi la tendenza è quella di togliere la malattia, il dolore, la sofferenza, la vecchiaia (e magari la morte) attraverso la tecnologia (chimica, genetica, studio dei neurotrasmettitori). La soggettività umana, e con essa la dimensione storica, vengono tagliate fuori. Il pensiero del Novecento ha cercato di plasmare la realtà, ma lo ha fatto attraverso semplificazioni che hanno prodotto conseguenze tragiche. Tutto questo ha spianato la strada al pensiero unico, all’assunzione del dato economico come dato di natura, a un recupero della fede e della religione in chiave antirazionalista. Credo invece che ci sia sempre più bisogno di un pensiero capace di modificare la realtà e di non lasciar spegnere l’idea che un altro mondo è possibile.

D. Tornando al romanzo, ci sono altri omaggi letterari dichiarati.

R. Nella storia si configurano alcune situazioni drammatiche che evocano altri autori e altri libri. Chandler, Crumley, Hemingway, Proust. E, naturalmente, poteva mancare un rimando a Manuel Vázquez Montalbán in una vicenda che in parte si svolge a Bangkok?

D. E ricompare una figura del primo romanzo, la prostituta nera Jasmìne.

R. Ricompare, e la sua vicenda resta “aperta”. Jasmìne, oltre che una donna forte, bella e generosa, è anche il simbolo della sofferenza estrema di un’umanità privata di qualsiasi diritto, anche quello di esistere. Un’umanità per la quale costituisce un pericolo perfino la propria bellezza. Ho lasciato la vicenda aperta perché credo che meriti un nuovo libro, ancora tutto da scrivere.

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