Intervista a Jonathan Safran Foer autore di Ogni cosa è illuminata ISBN:8882464164

18 giugno 1942. Nello shtetl (la tipica comunità ebraica dell’Europa orientale) di Trachimbrod, Ucraina, si festeggia la fondazione, il giorno più importante dell’anno: dappertutto sfilano i carri allegorici, la Regina del paese è attorniata dalle attenzioni delle reginette e gli uomini danzano ubriacandosi di vodka. Quello stesso giorno i nazisti decidono di occupare il villaggio con i carri armati, ma prima fanno piovere tonnellate di bombe. I sopravvissuti sono condotti davanti alla sinagoga: un colonnello tedesco urla che tutti gli ebrei facciano un passo avanti. Nessuno si muove, allora lui spara, e poi chiede di nuovo il passo, e poi spara ancora, e poi… 1997: Jonathan Safran Foer, giovane ebreo americano, decide di andare a Odessa, Ucraina, alla ricerca di Augustine, la donna che ha salvato il nonno quel terribile giorno. Lo accompagnano nel viaggio i due Sasha, nonno e nipote, che gestiscono l’Agenzia Viaggi Tradizione. Quando le ricerche sembrano non portare a nulla, lo strano trio incontra una vecchina stramba e solitaria cui viene mostrata una vecchia foto di Augustine; come per incanto le sue lacrime aprono la strada a ricordi lontani ma ancora sconvolgenti: la figlia del fiume, Yankel, la zingarella, Safran, Zosha, Herschel: nomi di persone sprofondate nella corrente del Brod, da dove — un giorno del 1797, quando scomparve Trachim B — tutto ebbe inizio… Questa è la storia del romanzo Ogni cosa è illuminata. Ne abbiamo parlato con l’autore, in questi giorni in Italia.

D. Lei è un giovane esordiente: quanto deve la sua letteratura a illustri scrittori americani di origine ebraica quali Philip Roth, Isaac B. Singer, Chaim Potok, solo per citarne alcuni?

R. Non molto. Mi spiego: è un dato di fatto che si avverta nel mio lavoro la presenza di questi grandi scrittori, ma non mi sento intenzionalmente legato a loro, ho cercato semplicemente di scrivere quello che sentivo di poter scrivere, di fare il mio libro e basta.

D. Il viaggio in Ucraina lei l’ha compiuto davvero, l’Eroe del romanzo porta il suo stesso nome e, come lei, è un giovane ebreo americano. Tre indizi fanno una prova, ma noi le diamo l’occasione di “scagionarsi”: quanto è presente e quanto conta davvero l’elemento autobiografico nel suo libro?

R. Molto e poco allo stesso tempo. I personaggi, il viaggio, le foto, alcune circostanze particolari sono le stesse, ma nel libro sono valse soltanto come trampolino di lancio: la mia intenzione è stata di usare i fatti come punto di partenza, non di arrivo.

D. Il libro cresce intorno ad alcune storie parallele che apparendo e scomparendo s’intrecciano più volte. Al riguardo, negli Usa la critica ha parlato di stile acrobatico o addirittura “ventriloquo”. Vorrebbe commentare?

R. Non saprei. È buffo, perché per me il libro è scritto nella maniera più semplice possibile. Il problema, forse, sta nel fatto che un conto è voler dire una cosa e un altro dirla effettivamente. Per dire “ti amo” ci sono modi diversi, come per esempio usare i fiori. Tornando al mio libro, volevo dire cose semplici, ma la maniera di dirle è stata acrobatica…

D. A proposito di Brod (forse il personaggio più bello e importante del libro), la figlia del fiume, si legge: “La vita di Brod fu una lenta assimilazione del fatto che il mondo non era per lei”. Questa conclusione, diciamo pure romantica, ci sembra un buon modo per parlare anche della cultura dello shtetl e del mondo ebraico della diaspora, è d’accordo?

R. Può funzionare. In effetti per me Brod è il personaggio più bello del romanzo, anche se sto notando che chi va per la maggiore in America è Alex. Per quanto riguarda la vicinanza tra Brod e lo shtetl o la cultura della diaspora, non ci avevo pensato coscientemente ma devo ammettere che in generale, quando scrivo, non sono così consapevole da sapere prima il significato di tutto quello che metterò sulla carta.

D. Il fatto intorno al quale ruota la vicenda è un orrendo episodio della Seconda guerra mondiale, in cui i nazisti uccisero 1204 abitanti di religione ebraica in questo villaggio dell’Ucraina sovietica. Per alcuni, come il filosofo Theodor W. Adorno, di fronte a un evento di gravità incommensurabile quale la Shoa (lo sterminio nazista degli ebrei) la parola e la scrittura dovevano arretrare fino al silenzio. Lei, all’opposto, sembra invece credere nella possibilità di “illuminare” l’estremo…

R. Sì, perché non c’è niente che renda il silenzio tollerabile: si deve invece poter parlare e scrivere di tutto, perché se uno ha fede nella possibilità di comprensione della natura umana deve credere anche alla possibilità di trovare una spiegazione a eventi come la Shoa. Naturalmente mi rendo di tutte le carenze intrinseche al linguaggio, ma nonostante tutto credo sia l’unica strada che abbiamo per raggiungere le cose, o almeno per provarci.

D. Spesso, nel romanzo il personaggio J. S. Foer accenna (con un pizzico d’ironia, se non sarcasmo) all’irrimediabile differenza tra ebraismo e resto del mondo: che cosa ne dice invece J. S. Foer autore?

R. Non c’è nessuna differenza. È un’idea sbagliata di Jonathan in cooperazione con l’ucraino Alex, il quale, per certi versi, ha un modo di fare, di pensare (e di parlare) più vicini all’ebraismo di quelli dello stesso Jonathan. Durante una trasmissione radiofonica a cui ho partecipato mesi fa in America, ha telefonato un fan del libro ringraziandomi per aver raccontato la vera storia della sua famiglia; bene, grazie, ottimo… ho risposto io, ma lui ha continuato dicendo che abitava a Philadelphia ed era di colore! Al di là dello stupore iniziale, questa cosa mi ha ricordato che ogni esperienza di vita è fondamentalmente simile a un’altra: di conseguenza, un libro funziona meglio se è in grado di evocare il patrimonio comune condiviso dall’umanità (la solitudine, il bisogno d’amore), da neri ed ebrei, italiani e americani e via andare…

D. Chiudiamo con una domanda più “leggera”: nonostante l’argomento drammatico, l’ironia e la comicità abbondano ovunque nel romanzo. Scrivendolo, lei si è più commosso, divertito, o…?

R. Ho cercato di metterci tutto quello che sentivo nella mia vita: quindi c’è una parte drammatica, una ironica, un’altra triste, un’altra ancora comica, ecc… Un libro — il mio libro — dev’essere una cosa vivente in cui dare tutto me stesso, ed ecco spiegato anche il titolo: ogni fatto è denso, pieno di immagini, di emozioni, di tutto… e questo tutto ha il diritto di essere portato in superficie e illuminato.

[Intervista a cura di Michele Weiss]

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