“Una specie di Vento” è un romanzo che ridà vita alle otto vittime della strage avvenuta il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia. Un atto d’amore e di memoria in cui i caduti non sono solo nomi su una lapide commemorativa, ma uomini e donne in carne e ossa, “né santi né eroi”, in una Spoon River luminosa, scandita dalla voce di un sopravvissuto – Su ilLibraio.it un estratto

Una manifestazione antifascista che riuniva partiti e sigle sindacali. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti e un fiume di gente tutt’intorno. L’esplosione, dissero i sopravvissuti, fu “una specie di vento”. Il bilancio: otto vittime e centodue feriti. Poi indagini, depistaggi, omissioni, mezze verità, cinque istruttorie, tredici dibattimenti e due condanne definitive arrivate nel giugno 2017.

Quarantatré anni dopo. Marco Archetti, avvalendosi di documenti storici e testimonianze di prima mano, scrive Una specie di Vento (Chiarelettere), un romanzo che ridà vita alle otto vittime della strage avvenuta il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia. Scrittore bresciano, classe ’76, Archetti collabora con varie testate, tra cui il Corriere della Sera e Il Foglio. Ha pubblicato Sette diavoli (Giunti), I giorni non si scavalcano (Rizzoli) e il libro della campionessa di ginnastica Vanessa Ferrari, Effetto Farfalla: la mia vita raccontata a Marco Archetti (Mondadori 2015). Per Feltrinelli sono usciti Lola motel, Vent’anni che non dormo, Maggio splendeva, Gli asini volano alto e Sabato, addio.

Una specie di Vento è un atto d’amore e di memoria in cui i caduti della strage non sono solo nomi su una lapide commemorativa, ma uomini e donne in carne e ossa, “né santi né eroi”, in una Spoon River luminosa, scandita dalla voce di un sopravvissuto alla strage, Redento Peroni.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

Quanti anni ho passato a contare? Dieci? Venti? Trenta? Conti e riconti e in un momento arrivi a quaranta. Quarantaquattro, a esser precisi. Ma nonostante tutto, cari nipoti, vostro nonno è ancora qui: Redento Peroni, salvo per un pelo e per niente matto. Semmai, miracolosamente in equilibrio. Su un filo, magari, ma pur sempre in equilibrio.

In certi momenti non so proprio come ho fatto, non è stato facile restare lucido. Sapete cosa dicevo, i primi tempi, a vostra nonna? Le dicevo: «Marisa, non escludo di andar fuori di testa, se va avanti così».

Be’, i giorni passavano e tutto andava avanti così. Allora io tornavo indietro. Non che lo volessi. Non che mi piacesse. Diciamo che sarebbe stato impossibile evitarlo. Il risultato? Questi quarant’anni, passati con la sensazione di vivere in retromarcia, con la sensazione di fissare un punto per tutta la vita. Fissavo, fissavo, fissavo. Ma a furia di fissare, esistevo ancora? Piano piano mi stavo trasformando in un fantasma, in un’ombra ingoiata dai fatti. Quanti anni ho passato a contare da uno a otto? E poi da otto a uno? E poi da capo e ancora, alla rovescia, ripetendomi sempre le stesse cose, perché a un certo punto sembrava chiaro, solare, palese che non sarebbe cambiato nulla.

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto: otto le sentenze definitive pronunciate in un istante quella mattina del 28 maggio, e quarant’anni di carte e deposizioni non riuscivano a stabilire nient’altro? I dibattimenti si susseguivano come una novena insopportabile, vagoni blindati carichi della stessa, unica, orribile verità, e cioè che non c’era alcuna verità. Insomma: quella mattina in piazza Loggia non era accaduto nulla. Ci eravamo inventati tutto. Si era trattato di un’allucinazione collettiva.

Ma a me lo spostamento d’aria aveva scombussolato il cervello, altro che allucinazione! Dopo lo scoppio della bomba, ricordo il sangue e le viscere di qualcuno, grondanti, sulla faccia. Ricordo l’odore di ustione, di macerie, di massacro. Ricordo pezzi di corpi umani per terra mentre una cortina di fumo ondeggiava sui frantumi.

L’avevo sognato, quel disastro? Io, dopo lo scoppio, mi sono lanciato in corsa come un diavolo, a casaccio, gambe in delirio e pensieri a brandelli. Cadevo e mi rialzavo, mi rialzavo e cadevo, solo l’urlo in gola, senza respirare, cervello scoperchiato e nervi bruciati, trapunto di fuoco dalla testa ai piedi. Era successo qualcosa, eccome se era successo. In fondo lo sapevamo, o per lo meno io quella mattina credevo di saperlo…

Ma no, fermi, cosa dico? Non è vero, non è cosi. Non posso mentire proprio a voi che mi avete chiesto mille volte di raccontarvi tutto… In realtà nemmeno io ci avevo capito qualcosa. Dopotutto, come si fa a immaginarsi davvero una cosa del genere? Certo, i segnali c’erano tutti. I tempi erano quelli: tetre comparse della Repubblica di Salò riemergevano dalle tenebre del passato. A capo del Sid, il Servizio informazioni della difesa, c’era un uomo come Vito Miceli, che non si preoccupava di nascondere le sue simpatie fasciste. L’eversione di destra si rigenerava e rinasceva di continuo, gemmando a tutto andare una cupa miriade di sigle, gruppi e nuclei clandestini. Il motto di ≪Anno zero≫, periodico che giustificava il ricorso alla violenza e auspicava un assetto basato sul terrore e la gerarchia, era ≪Distruggere tutto per tutto ricostruire≫, secondo lo schema: bombe, instabilità, golpe. I gruppi neofascisti bresciani erano in contatto con La Fenice di Milano e Ordine nuovo di Padova.

I tondinari, negli impianti siderurgici, picchiavano, minacciavano e intimidivano i lavoratori e i rappresentanti sindacali. A marzo, nella chiesa delle Grazie, erano stati rinvenuti due ordigni. Un terzo aveva danneggiato la sezione del Psi di largo Torrelunga e otto candelotti di dinamite erano stati offerti in gentile omaggio anche alla sede della Cisl. Pochi giorni prima della strage, Silvio Ferrari, giovane esponente della destra cittadina, era saltato in aria mentre trasportava in Vespa due diversi tipi di esplosivo e un detonatore elettrico collegato a una sveglia. Ma le forze dell’ordine, rimandando le pulizie, contribuivano a rendere la situazione, di fatto, sempre meno controllabile. Per voi ragazzi nati nel 2000 sono cose lontane, me ne rendo conto, ma io in questi anni ho continuato a ripetermi: Redento, invece di logorarti chiedendoti perché è accaduto, chiediti come accidenti sarebbe potuto non accadere. Perché gli indizi erano lì, allineati, una fila di birilli in attesa dello strike. Provate a immaginare: l’azione comincia con una sfera lucida e nera che rotola inesorabile lungo una corsia. E noi – i birilli – li in piazza: gli otto che sono morti, io che mi sono salvato, i cento che sono rimasti feriti e gli altri duemilacinquecento.

≪Ragazzo, vieni sotto il portico, che piove.≫

Sotto il portico, sì. Perché sapete, io mi stavo sporgendo.

Sono queste le parole che mi ha detto Bartolomeo Talenti, una delle vittime della bomba. Gli ho sorriso e ho fatto un passo indietro. Senza che lo immaginasse, quell’uomo mi stava salvando la vita. È in una semplice frase che si incarna il destino? Poteva toccare anche a me, quel destino che ha contato fino a otto?

È la pioggia, il destino?

Brescia, 28 maggio 1974: la sfera colpisce i birilli. Alle 10.12 la vita di otto persone si è fermata, la vita di vostro nonno si è fermata, la storia intera si è fermata. Si è fermato anche il Giro d’Italia. E per questo che da quel momento in poi io sono stato quel che vedete, un uomo con lo sguardo rivolto all’indietro, un uomo turbato ma forte, un uomo che dorme poco e male, a strappi, a pezzi piccoli come francobolli e sempre dopo aver supplicato il buio, dopo avergli scritto sul soffitto l’ennesima lettera di preghiere, dopo aver fissato il pozzo delle risposte che non ci sono. Dormire: l’impossibile eclisse, la mia impossibile tregua. In questi anni mi avete chiesto cos’era accaduto quella mattina. E io sono sempre fuggito. Ma ora ho deciso che dovete sapere tutto, perché questa storia è arrivata a una conclusione e riguarda anche voi, il sangue che abbiamo nelle vene, la nostra famiglia. Non riguarda solo me e le otto persone che hanno perso la vita. Mi basta chiudere gli occhi e sono ancora lì, perché io – capite, nipoti miei? – ho continuato a essere lì. E questo che fa di me un testimone: non il fatto che ci fossi, ma il fatto che non ho mai smesso di esserci. In quella piazza sono passate persone, si sono succedute stagioni, avete ascoltato concerti, insomma, si è consumato tutto il via vai della vita, ma io ero lì, solo, invisibile, immobile, a fissare un cestino e una fontana. Io tutte le mattine mi alzavo e mi guardavo allo specchio del bagno, e a quell’uomo – quel tale che rifletteva lo specchio e mi assomigliava alla perfezione – vedevo bene che passavano i giorni e gli anni; vedevo che il tempo lo corrugava e lo scoloriva.

Ma era un fatto solo esteriore, perché io riempivo un guscio. La verità e che ho fatto la mia vita, ho lavorato e sono andato in pensione, però sono rimasto sempre quello che si è guardato nello specchio del bagno la mattina del 28 maggio 1974. Cosa volete che siano quarant’anni? Non sono niente, quando ti raccontano sempre la stessa storia. Perchè in quello specchio, tutte le mattine, questo nonno che avete davanti adesso, con la faccia stanca, i capelli grigi e le rughe, vedeva sempre la stessa cosa.

Gli occhi azzurri di un ragazzo di trentaquattro anni.

(Continua in libreria…)

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