In libreria “Il leone d’oro”, il nuovo romanzo di Wilbur Smith, re dell’avventura: vendetta e onore, amore e intrighi nell’Africa orientale… – Su ilLibraio.it un estratto

L’attesa è finita: il nuovo romanzo di Wilbur Smith, autore da 123 milioni di copie nel mondo, è in libreria, pubblicato da Longanesi. Il leone d’oro (scritto con Giles Kristian) è ambientato nell’Africa orientale, nella seconda metà del diciassettesimo secolo. Il naufrago che viene ritrovato sulla costa, a bordo del relitto di una nave, dovrebbe essere morto, quel che resta di lui appare troppo mal ridotto perché il suo cuore batta ancora. E invece quell’uomo si risveglia, con un urlo agghiacciante. È il soffio della rabbia a tenerlo in vita, nonostante le orribili ferite e le mutilazioni. È il desiderio di vendetta a bruciargli dentro come il vento del deserto e a spingerlo verso il suo destino. Perché lui è il temuto Avvoltoio e ha un solo obiettivo: uccidere Hal Courteney e tutti quelli che ama. Hal Courteney incarna la quintessenza di una vita vissuta pericolosamente: avventuriero insignito dell’ordine del Leone d’Oro, ha per moglie una nobile guerriera etiope che combatte al suo fianco, possiede un cospicuo tesoro e un ancor più cospicuo numero di nemici. Hal è convinto di aver seppellito per sempre il suo peggiore avversario, l’Avvoltoio, responsabile dell’ingiusta condanna di suo padre. Ma le loro strade sono destinate a incrociarsi ancora nell’esotica e affascinante Zanzibar.

Wilbur Smith,  nato nel 1933 nella Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia),  è cresciuto e ha studiato in Sudafrica. Si è dedicato a tempo pieno alla narrativa dal 1964 e da allora ha pubblicato numerosi romanzi, basati su attente ricerche e appassionanti esplorazioni condotte in ogni angolo del pianeta. Considerato il maestro incontrastato dell’avventura, ha da poco fondato la Wilbur and Niso Smith Foundation (ne abbiamo parlato qui) con lo scopo di diffondere l’interesse per questo genere e scoprire nuovi talenti.

Su ilLibraio.it pubblichiamo due estratti de Il leone d’oro:

Dentro di sé l’uomo stava gridando, ma aveva le corde vocali talmente bruciate, lacerate e devastate da fumo e fiamme che l’unico suono a sgorgare fu un sibilo acuto e tremulo, patetico come il soffio di un mantice rotto. C’era stato un tempo, nemmeno un paio di mesi prima, in cui aveva levato il viso verso il temporale ed esultato di una gioia selvaggia, mentre il vento e gli spruzzi di acqua marina sferzavano il suo volto segnato dalle intemperie. Adesso invece la tiepida brezza profumata di gelsomino che entrava dalle finestre aperte gli sembrava un mucchio di spine conficcate sui miserevoli brandelli della sua pelle. Era consumato da un dolore straziante, e benché il medico impegnato a togliergli le bende dal viso stesse usando la massima delicatezza, ogni nuovo centimetro di pelle esposta lo trafiggeva con una stilettata di puro, assoluto tormento. E con ogni fitta giungeva un nuovo e indesiderato ricordo della battaglia: il calore ustionante e il bagliore delle fiamme, l’assordante boato di cannoneggiamenti e legno che bruciava, l’impatto del legname della nave che gli stritolava le ossa. «Mi spiace, ma non si può fare altrimenti», mormorò il medico iniziando a togliere le bende. Esercitava da quasi cinquant’anni e aveva acquisito un’aria di saggezza e venerabilità capace di rassicurare la maggior parte dei pazienti affidati alle sue cure. Quell’uomo però era diverso. Le sue ferite erano letali, tanto che stupiva vederlo ancora vivo. L’uomo poteva essere sopravvissuto solo per volere divino. Il medico sospirò e scosse il capo, mentre osservava quella devastazione. No, una simile atrocità non poteva in nessun modo essere opera di Allah, l’onnipotente e misericordioso. Quello doveva essere il lavoro di Shaitan, il demonio in persona, e il mostro davanti a lui sembrava un diavolo dalle sembianze umane. A poco a poco, più che vedere, l’uomo ferito percepì un barlume di luce, che si fece meno fioca a ogni giro tracciato dalla mano del medico intorno alla sua testa e a ogni strato di bende che gli veniva tolto. Si rese conto che il bagliore sembrava arrivargli solo tramite l’occhio destro. Il sinistro non c’era più. Fece per sollevare la mano sinistra e sfregarsi l’occhio, ma la mano non c’era più. Si era dimenticato, per un attimo, di aver perso il braccio sinistro. Costretto a rammentarlo, si accorse che anche il moncherino prudeva. Alzò il braccio destro, ma si sentì serrare la mano in una morsa salda, asciutta, ossuta, e udì di nuovo la voce del medico. Non capì una sola parola di quanto diceva, ma il senso generale risultò chiaro: non pensarci nemmeno. Sentì che l’uomo gli premeva sulle orbite oculari una pezzuola fresca, che alleviò un po’ il prurito. Quando venne tolta, con estrema lentezza lui riacquistò la vista. Vide una finestra e, dietro, l’azzurro del cielo. Lui guardò il giovane e tentò di chiedergli: «Parli inglese?» Nessuno però sentì le sue parole: la voce era un sussurro stentato. Con la mano destra ridotta a un artiglio spezzato, indicò al mezzosangue di avvicinarsi. L’altro obbedì. «Parli inglese?» ripeté l’uomo sul letto. «Sì, signore.» «Allora di’ a questo arabo rognoso…» Si interruppe in cerca di fiato, facendo una smorfia quando l’aria gli grattò i polmoni devastati dal fumo e dalle fiamme. «Digli di smetterla di essere così vigliacco.» Un altro respiro fu seguito da un breve, brusco rantolo di dolore. «E di togliere quelle bende una volta per tutte.» Le parole vennero tradotte e il ritmo della rimozione notevolmente accelerato. Il dolore aumentò, ma il paziente cominciava a ricavare un piacere perverso dalla sofferenza atroce che pativa. Aveva deciso di trasformarla in una forza – non diversa dal vento o dal mare – che lui sarebbe riuscito ad affrontare e a padroneggiare. Non ne sarebbe stato sconfitto. Aspettò che l’ultimo brandello di quel tessuto fetido e disgustoso, incrostato di sangue e pelle viva, venisse staccato, quindi ordinò: «Digli di portarmi uno specchio». Il giovane sgranò gli occhi. Si rivolse al medico, che scosse il capo e cominciò a blaterare con un ritmo molto più serrato e un tono più acuto. Era chiaro che il giovane stava facendo del suo meglio per convincerlo. Alla fine si strinse nelle spalle, sventolò le mani in un gesto di resa esasperata e si girò di nuovo verso il letto. «Si rifiuta, signore.» «Come ti chiami, ragazzo?» chiese il ferito. «Althuda, signore.» «Bene, Althuda, di’ a quel bastardo ostinato che sono l’amico più caro… no, il fratello in armi di Ahmed El Grang, re dell’Oman, e anche di Sadiq Khan Jahan, fratello minore del Gran Mogol in persona. Digli che entrambi tengono in gran conto il favore che ho fatto loro e si offenderebbero a morte se sapessero che un segaossa vecchio e scheletrico si è rifiutato di obbedirmi. Poi chiedigli, per l’ultima volta, di andare a prendermi un dannato specchio.» Si lasciò cadere all’indietro sui cuscini, stremato dalla discussione. L’uomo fece un inchino, trascinò i piedi, assunse un’aria contrita e poi attraversò la stanza con una velocità inaspettata per una persona in apparenza così decrepita. Infine tornò, a passo più lento, reggendo un grosso specchio ovale con la cornice a mosaico dai colori vivaci. Era un oggetto massiccio, e al medico servì l’aiuto di Althuda per tenerlo sospeso sopra il letto con un’angolazione tale da permettere al paziente di osservarsi. Per un attimo, il sopravvissuto rimase sconvolto da ciò che vide. Sembrava un cadavere rimasto sottoterra per un paio di settimane almeno. Ma quello, rifletté, era proprio l’aspetto che doveva avere, perché non era più del tutto vivo, ormai. Il suo corpo era un ammasso di rovine e il suo cuore gelido come una tomba. Eppure non tutto era perduto. Racchiudeva in sé una forza che adesso sentì montare, diretta a rimpiazzare i suoi antichi desideri e impulsi. Era potente come un impetuoso fiume in piena, ma di bile invece che di acqua. Perché era una violenta corrente di rabbia, amarezza, odio e, soprattutto, un soverchiante desiderio di vendicarsi di chi lo aveva ridotto in quelle condizioni spaventose. Fissò Althuda con l’unico occhio buono e disse: «Ho chiesto il tuo nome, ma tu conosci il mio?» «No, signore.» Una smorfia macabra si allargò sul viso dell’uomo, nell’orrenda parodia di un sorriso. «Allora te lo dico. Sono Angus Cochran. Sono un orgoglioso scozzese e porto il titolo di conte di Cumbrae.» Althuda sgranò gli occhi, al colmo dell’orrore, nel riconoscerlo. «Siete… siete quello che chiamano l’Avvoltoio», disse, senza fiato. «Esatto. E se sai questo, forse hai anche sentito parlare dell’uomo che mi ha ridotto così, un maledetto inglese di nome Hal Courteney. Oh, sì, vedo che ti suona familiare, vero, ragazzo?» «Sì, signore.» «Bene, allora ascoltami bene. Ho intenzione di trovare Courteney, non importa quanto mi ci vorrà o fino a dove dovrò spingermi. Ho intenzione di abbatterlo e di intingere il becco nel suo sangue.»

[…]

La battaglia si era spostata avanti e indietro sull’altopiano di Kebassa, nel nord-est dell’Etiopia, da poco dopo l’alba fino alle ultime luci del giorno. Ormai il clamore era cessato, sostituito dalle urla trionfanti dei vincitori, dagli appelli disperati alla misericordia da parte degli sconfitti e dalle grida penose dei feriti, che imploravano un po’ d’acqua o, se la fine era vicina, invocavano la propria madre. Un esercito di etiopi cristiani aveva inflitto una terza, schiacciante sconfitta all’esercito musulmano radunato per invadere quella terra su richiesta del Gran Mogol in persona. Dietro le linee etiopi era stata montata una grande tenda, l’ingresso sorvegliato da una compagnia di guerrieri in elmo e corazza. Al centro della tenda troneggiava un grosso tavolo su cui c’era una riproduzione in miniatura del campo di battaglia e del paesaggio circostante. Le colline erano rappresentate con precisione; torrenti, fiumi e laghi erano colorati di azzurro, così come la parte che raffigurava il mare. Figurine d’avorio squisitamente intagliate di soldati a piedi, cavalieri e cannoni rappresentavano i reparti di fanteria, cavalleria e artiglieria schierati sui due lati. All’inizio della giornata erano stati disposti in modo da rispecchiare l’ordine di battaglia dei due eserciti, ma ormai molte delle statuine che simboleggiavano le forze arabe erano abbattute o erano state tolte dal tavolo. Nella tenda si respirava un’atmosfera serena. Una figura alta e imponente in abiti ecclesiastici era assorta nella conversazione con un capannello di alti ufficiali. Il sommesso mormorio di voci maschili era in netto contrasto con gli acuti strilli di eccitazione e piacere che giungevano da poco distante. «Bam! Bam! Prendi questo!» stava urlando un bambino. Stringeva in mano la figurina di un cavaliere etiope in sella a un possente stallone e la muoveva con foga su un angolo del tavolo, abbattendo qualsiasi figura araba fosse rimasta in piedi dopo la battaglia. Una guardia scostò il lembo all’ingresso della tenda per far entrare un soldato, la cui tunica di lino bianco, indossata sopra una cotta di maglia, sembrava creata per enfatizzare la corporatura snella e flessuosa di chi la portava. «Generale Nazet!» urlò il bambino, che lasciò cadere il soldatino e sfrecciò sul suolo coperto di tappeti per lanciarsi verso le gambe rivestite di acciaio del soldato, su cui scintillavano, ancora umidi, alcuni schizzi scarlatti di sangue nemico. Le abbracciò forte, come se si stesse rannicchiando contro il petto morbido e accogliente della madre. Il generale si tolse l’elmo piumato, scoprendo una folta chioma di riccioli neri che, a una sua rapida scrollata della testa, presero vita formando un alone la cui sorprendente somiglianza con una delle aureole sui vicini arazzi veniva accentuata dal bagliore dorato delle candele. Non c’era traccia del sudore e del sudiciume della battaglia sulla liscia pelle ambrata del generale, sul naso sottile e femmineo o sul glabro mento dall’ossatura elegante; nessuna traccia di tensione o spossatezza nella voce pastosa e sommessa che disse: «Maestà, ho l’onore di informarvi che la vittoria del vostro esercito è completa. Il nemico è sopraffatto e le sue forze stanno battendo in ritirata». Sua altezza cristianissima Iyasu, re dei re, sovrano dei Galla e di Amhara, difensore della fede di Cristo in croce, si staccò dalle gambe del generale, fece un passo indietro e cominciò a saltellare, battendo le mani e lanciando grida di gioia. I militari si avvicinarono e si congratularono con il commilitone in modo più sobrio, con strette di mano e pacche sulla spalla, mentre il religioso pronunciava una benedizione e una preghiera di ringraziamento. Il generale Nazet rispose agli omaggi con fare pacato e dichiarò:«E ora, maestà, ho un favore da chiedervi. Già una volta ho rassegnato le dimissioni da comandante delle vostre forze armate, ma poi le circostanze sono mutate. Il mio imperatore e il mio paese avevano bisogno di me e la coscienza non mi avrebbe mai permesso di voltare le spalle al mio dovere, così ho infilato ancora una volta l’armatura e impugnato la spada. Sono stata un generale ai vostri ordini. Ma sono anche una donna, maestà, e in quanto tale appartengo a un uomo. Lui mi ha lasciato la libertà di tornare al vostro servizio e ora, con il vostro permesso, desidero tornare da lui». Il ragazzino la guardò accigliato mentre rifletteva. «Quell’uomo è il capitano Courteney?» chiese. « Sì, vostra maestà», rispose Judith Nazet. «L’inglese con gli occhi strani, colorati di verde come foglie su un albero?» «Sì, vostra maestà. Ricordate di averlo accolto nell’ordine del Leone d’Oro di Etiopia come ricompensa per il suo coraggio e i servigi resi alla nostra nazione?» «Sì, ricordo», replicò Iyasu, con una vocina inaspettatamente triste. Sollevò il viso dalle pieghe della tunica di lei e chiese, con un filo di voce: «Andrai via in nave con il capitano Courteney, vero?» «Sì.» «Ti prego, non farlo», la pregò lui e poi, con una determinazione disperata, gridò: «Ti ordino di non andare! Devi obbedirmi! Hai detto di esserci obbligata!». Poi la diga si ruppe e lui crollò, singhiozzando contro la spalla della donna. L’ecclesiastico fece un passo verso il giovane sovrano, ma lei alzò una mano. «Un attimo, vescovo. Lasciate che me ne occupi io.» Lasciò piangere un altro po’ Iyasu finché non si calmò e si asciugò gli occhi e il naso sulla tunica di lei. «Ora», gli disse, «sapete che vi sono molto legata, maestà, vero?» «Sì.» «E anche se vado via, non importa quanto lontano, vi vorrò sempre bene e mi ricorderò di voi. E pensate, se mi spingerò in paesi remoti come l’Inghilterra o la Francia, potrò scrivervi e raccontarvi tutte le cose straordinarie che vedrò.» «Prometti di scrivermi?» «Vi do la mia parola di soldato, maestà.» «E se salgo sulla nave del capitano Courteney lui mi lascerà sparare con un cannone?» «Gli ordinerò personalmente di farlo. E visto che sono un generale e lui è solo un capitano, dovrà obbedirmi.» L’imperatore Iyasu rifletté per un istante, emise un sospiro cupo, diede le spalle a Judith e disse: «Vescovo Fasilides, vi prego, abbiate la bontà di dire al generale Nazet che ha il mio permesso di andarsene».

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