Dal Grande Gazometro all’ex mattatoio: nel cuore di una Roma sconosciuta, con lo scrittore Mirko Zilahy – Il reportage

Nel cuore di una Roma sconosciuta, due chilometri a sud dell’isola Tiberina, c’è una zona che sfugge allo sguardo languido del turismo e a quello distratto di chi ci transita quotidianamente. Abbandonato il biancore stentoreo dei marmi, s’incontra una zona segnata dal mattone, dal ferro e dal cemento, un’area figlia delle trasformazioni industriali della capitale tra la fine dell’Ottocento e i primi del secolo scorso.

All’altezza di ponte Testaccio, avvolto dalle brume del Tevere, si svela un complesso di bassi edifici allungati. È l’ex mattatoio, assopito tra i palazzoni del vecchio quartiere operaio e il monte dei Cocci. È uno dei fiori all’occhiello dell’architetto Gioacchino Ersoch, frutto della necessità urbanistica di spostare il centro di mattazione da Piazza del Popolo alla nuova area industriale che sorgeva lungo il fiume. Ci sono una dozzina di costruzioni mattonate con le ciminiere sopra i tetti a doppia falda. All’interno del complesso, i fanali quadrati s’accompagnano alle vie del labirinto. Sulle soglie e sugli stipiti dei portali le mura sono segnate da lastre di travertino. Lungo il perimetro interno dei padiglioni – parola dalla natura doppia, tra macello e ospedale – corrono file di colonne in ghisa e capriate di ferro sorrette da travi che fino agli inizi degli anni Settanta provvedevano al sollevamento delle carni dei bovini e dei suini.

 Mira Lanza, saponificio - Foto di Silvio Galeano, www.arvaliastoria.it

(fonte: Mira Lanza, saponificio – Foto di Silvio Galeano, www.arvaliastoria.it)

Qui, di notte, il tenue bagliore dei fanali scivola attraverso i lunettoni e bagna le serpentine di metallo che sostenevano gli uncini e le catene. Oggi questi luoghi sono adibiti al commercio di prodotti biologici o sono diventati la sede del MACRO, il museo d’arte contemporanea di Roma. Oggi questi spazi sono foyer, atelier, galleria, teatro studio uno e due, meeting room, e sono destinati a mostre e attività di formazione. Gli stessi spazi che all’inizio degli anni Settanta si chiamavano “stabilimento di mattazione”, “pelanda”, “impianto per la lavorazione del sangue”. Anche quelli all’aperto, dove la domenica i ragazzini giocano a pallone tra le bancarelle, ieri ospitavano il campo boario, il mercato delle bestie mattate. Gli odierni ornamenti dell’architettura industriale però conservano una memoria genetica delle macchine del sangue e del terrore.

Superato il Ponte di Ferro e gli ex mulini Biondi, sulla destra s’incontra la mole cadente degli stabilimenti Mira Lanza, relitti di mura di mattoncini in stile anglosassone ormai smantellate. Sulla riva opposta c’è l’area più vasta con le rovine del vecchio Porto fluviale, delle officine del gas e i due mastodontici carriponte dei Magazzini Generali. Infine la sagoma sbiadita della centrale Termoelettrica Montemartini che, accanto alle caldaie e ai macchinari in ghisa, accoglie marmi e mosaici romani.

A vincere la battaglia delle macerie è però l’imponente sagoma del Grande Gazometro. Un reticolo metallico alto cento metri che troneggia sul fiume, lo scheletro cilindrico in perfetto contrappunto geometrico con il volume triangolare della Piramide Cestia che fa da sentinella a porta San Paolo.

L’effetto generale è straniante, decadente, lugubre. Le ossa d’acciaio delle bigie strutture dei tralicci, delle torrette e dei serbatoi appaiono scarnificate dalle mandibole del tempo mentre sulla riva, pochi metri più in basso, il Tevere nutre un rigoglioso groviglio di canne. Qui non occorre attendere la notte, con la nebbia che s’alza madida dal fiume, per accorgersi che l’area non è altro che un enorme cimitero industriale stipato di spettri d’argento. Ma agli inizi degli anni Quaranta, i giganteschi carri ponte, bruniti di ruggine e polveri, sostenevano gli organi meccanici di sollevamento, mani titaniche che spostavano tonnellate di coke sulle rotaie aeree come fossero briciole di pane. Erano gli anni del metano, e il carbon fossile veniva distillato per la produzione del gas e dei suoi derivati. Il coke era estratto dalle camere di distillazione, la massa bollente portata sotto un getto d’acqua che sprigionava immense nubi di vapore acqueo. Qui ci lavoravano operai specializzati e galeotti: ergastolani destinati agli altiforni che ai quattro metri quadrati di una cella preferivano la morte per le ustioni o per le esalazioni del benzene.

Oggi le officine del gas non esprimono più, coi loro tetri profili, la tristezza della periferia bagnata dal sole che arrossisce sulla marana dei «ragazzi di vita». Eppure, questa necropoli d’acciaio, questo complesso di membrature metalliche, di strutture fragili e annerite, sprigiona ancora un fascino aspro, lo stesso vaporoso incanto dei fumi alle spalle di Pier Paolo Pasolini nella celebre foto con il Grande Gazometro. Che ormai è diventato il custode di quella memoria, di un mondo nero e pulsante nutrito di foreste preistoriche. Ormai è solo il melanconico sovrano del suo regno vacillante, dei suoi castelli ferrosi e dei tetri villaggi di cemento armato.

 

L’AUTORE DEL REPORTAGE – Mirko Zilahy (Roma, classe ’74), ha vissuto nel quartiere di Montesacro fino al 1983 quando si è trasferito a Latina per seguire il lavoro del padre, nefrologo presso l’ospedale Santa Maria Goretti. Dopo il liceo classico, è tornato a Roma per l’Università Lingue e Letterature straniere, dove si è laureato, dopo aver gestito un pub, con una tesi su Dracula di Bram Stoker. Si è poi spostato in Irlanda per un dottorato di ricerca sullo scrittore Giorgio Manganelli. Al Trinity College di Dublino ha lavorato insegnando lingua e letteratura italiana. In seguito, al ritorno in Italia, ha lavorato per Fazi editore come redattore-aiuto editor della straniera nella casa editrice. Nel marzo 2014 è uscito nella sua traduzione Il Cardellino* di Donna Tartt per Rizzoli (premio Pulitzer). Il mese successivo è diventato editor della narrativa straniera di Minimum Fax, per cui ora collabora come consulente. È giornalista pubblicista e collabora conil Manifesto con recensioni letterarie. Oltre alla Tartt ha tradotto autori come Bram Stoker, Roger Boylan, Peter Murphy. È cultore di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. Vive nelle vicinanze del grande Gazometro con la compagna e due figli. È appassionato di calcio, arti marziali, hard rock, birra scura e Irlanda.

longanesi

E il 4 gennaio è uscito per Longanesi il suo primo romanzo, È così che si uccide: sulla tavola ci sono tutti gli ingredienti di un thriller, quegli stessi ingredienti che ne hanno già fatto un piatto apprezzato a livello internazionale: una città oscura, che offre la sua faccia più torva, fatta di acciaio, ruggine e pioggia. Un assassino seriale metodico, imprendibile, di ferocia chirurgica. Un commissario di straordinaria umanità, affiancato da una squadra in cui spiccano donne di grande acume e sensibilità. Ma questa volta in cucina c’è Zilahy, che ha la capacità (letteraria) di farsi da parte e lasciare che siano i suoi personaggi – tre in particolare: il commissario Enrico Mancini, il killer senza nome e la città, Roma, anch’essa un personaggio vivo – a fare la storia. Zilahy la racconta mescolando i registri, l’alto e il basso, l’action accanto al misurato accostamento di lemmi selezionati con cura quasi ossessiva.

 

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