“Riflettiamo su che cosa ci aspettiamo dai bambini, dai modelli che proponiamo loro, sulla forza emotiva delle fiabe e dei personaggi che popolano il loro immaginario. Fiabe che dovrebbero avere il compito di educare una mente – non per nulla, in ‘Vox’, le madri non possono più raccontarle alle figlie – ma che fino a poco tempo fa dipingevano personaggi femminili di due sole categorie: la giovane ingenua e inetta e la malvagia”. – Dopo aver letto il romanzo di Christina Dalcher, la scrittrice Ilaria Tuti riflette sul ruolo delle donne nella società contemporanea

Leggere Vox (Editrice Nord), di Christina Dalcher, non è stato facile. È una storia che disturba, che si vorrebbe spingere lontano, che fa scattare l’istinto di liberarsene, come quando una mano estranea all’improvviso ti tappa la bocca. Ti ruba le parole, ma anche l’aria, e allora devi dibatterti, anche mordere, per sopravvivere.

E se a quella mano estranea si aggiungessero quelle del tuo compagno e dei tuoi figli maschi? Allora inizierebbe un incubo.

L’autrice, scrittrice e linguista, ci racconta che in media ogni giorno pronunciamo 16.000 parole. In Vox, le donne non possono articolarne più di 100 per comunicare. L’effetto è la caduta dei congiuntivi, la scomparsa degli avverbi, la nascita di una nuova lingua, scarna e dal prezzo altissimo: quella delle recluse. Recluse psicologicamente e socialmente, perché l’impossibilità di comunicare è la prigione con i muri più alti.

In questo romanzo, l’essere umano maschio ha trovato il modo di far tacere la donna, di ricondurla a uno stato di sottomissione e controllo, per mezzo di un dispositivo – un contatore contenuto in un bracciale – che punisce con una scossa elettrica chi oltrepassa il limite, non importa se donna adulta o bambina. Ma l’uomo non si limita a questo, in Vox: non permette alle donne di leggere, di lavorare, di essere titolari di un conto corrente bancario, di usare un computer, di comunicare a gesti, di solidarizzare (lo insegnavano i Romani: divide et impera).

Non è stato facile leggere Vox, perché mi ripetevo «Non è possibile». Pagina dopo pagina la domanda, però, si è trasformata: «Davvero non lo sarebbe?».

In fondo, è accaduto per secoli, in molti paesi è un sistema che sta sopravvivendo e anche in quelli progrediti e liberali il controllo sulle donne continua spesso sotto altra forma, più sottile e invisibile, e per questo subdola.

Elena Gianini Belotti ne parlava già nel 1973, nel bellissimo saggio Dalla parte delle bambine (Feltrinelli), arrivato quest’anno alla trentaduesima edizione: ogni società – qualsiasi società – plasma i suoi componenti nella forma più congeniale alla trasmissione e stabilità dei valori su cui si fonda, e inizia a farlo nell’infanzia. Nonostante siano passati più di quarant’anni dalla prima edizione, vi si trovano con rammarico concetti ancora attuali: la femmina è tuttora considerata – giudicata – per quello che “darà”: alla famiglia di origine, al compagno, ai figli, persino nel lavoro. Il maschio, invece, per quello che “sarà”. La prima viene spinta all’interiorizzazione delle proprie energie, messe a disposizione degli altri come una coppa sempre piena da cui attingere, mentre il secondo è guidato alla propria realizzazione, con ogni mezzo e attraverso un sano egoismo.

Reprimere la vivacità, le pulsioni, la forza vitale, però, è più difficile che spingere alla realizzazione, ecco allora che i comportamenti tipici di una personalità fragile e umorale, etichettati come ‘tratti femminili’, altro non sono che segnali del malessere di un’anima soffocata, a cui è stato impedito, tramite condizionamenti sociali, di dispiegarsi pienamente.

Riflettiamo su che cosa ci aspettiamo dai bambini, dai modelli che proponiamo loro, sulla forza emotiva delle fiabe e dei personaggi che popolano il loro immaginario. Fiabe che dovrebbero avere il compito di educare una mente – non per nulla, in Vox, le madri non possono più raccontarle alle figlie – ma che fino a poco tempo fa dipingevano personaggi femminili di due sole categorie: la giovane ingenua e inetta e la malvagia.

Ricordo, da bambina, le gonne che mi impedivano di correre e di arrampicarmi. Il diverso peso dato ai comportamenti dei maschietti e delle femminucce. La compostezza che mi si richiedeva, l’assennatezza precoce. Mi sono salvata perché ho avuto una madre che a un certo punto ha smesso di credere a quello che anche a lei era stato insegnato, e mi ha lasciata libera. Purtroppo ancora oggi troppe bambine sono prigioniere di una cultura stantia.

In Vox, la protagonista trova la forza di ribellarsi non tanto per se stessa, quanto per la sua bambina, per le donne di domani: la chiave di lettura di questo romanzo non deve essere la guerra tra sessi, il sospetto e il rancore, ma una forma di amore più consapevole, che faccia da guida e da sostegno.

L’amore di una madre deve esprimersi in un esempio di libertà, di rispetto per se stessa, di ascolto della propria interiorità, di solidarietà, in modo da forgiare una futura donna forte e consapevole.

L’amore di un padre deve valorizzare la figlia, incoraggiarla a essere avventurosa, a rischiare, a mettersi in gioco senza timore di fallire, di inciampare nei giudizi altrui. Lui, primo e assoluto esempio di figura maschile, ha una responsabilità enorme: quella di far camminare la propria figlia per il mondo con il piglio di una conquistatrice. Conquistatrice dei propri sogni. Non c’è nulla di più potente dello sguardo ammirato di un padre verso la figlia, di un suo incoraggiamento a essere ciò che lei desidera: è l’unione più generosa, la saggezza del saper riconoscere la grandiosità nella tenerezza.

E ricordiamoci che gli uomini nascono dalle donne: insegniamo per prime ai nostri bambini il valore della complementarietà e che le qualità umane non dipendono mai dal sesso.

L’AUTRICE – Ilaria Tuti, friulana, ha lavorato come illustratrice per una casa editrice e ha vinto diversi premi letterari. Il thriller Fiori sopra l’inferno (Longanesi) è il suo fortunato romanzo d’esordio.

 

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