Zdravka Evtimova, una delle autrici più importanti nel panorama letterario bulgaro, è tra gli ospiti del festival “Il libro possibile”, in programma a Polignano a Mare dal 3 al 6 luglio

Zdravka Evtimova è una delle autrici più importanti nel panorama letterario bulgaro. Ed è tra i protagonisti del festival “Il libro possibile”, giunto alla 18esima edizione (sostenuto per il secondo anno da Pirelli), in programma a Polignano a Mare dal 3 al 6 luglio.

Evtimova sarà in Puglia il 3 luglio, alle ore 22, presso la Balconata Santa Candida.

Nel 2015 Besa ha pubblicato il suo Sinfonia. A Polignano viene presentata la sua nuova raccolta di racconti, La donna che mangiava poesie (Besa Muci, tradizione di Clara Nubile), da cui è tratto il testo che proponiamo qui di seguito:

La donna che mangiava poesie

In quella stanza c’era qualcosa di inquietante, pensò lui mentre sorseggiava lentamente il vino, sforzandosi di non fissare quella donna che lo ignorava senza degnarlo nemmeno di uno sguardo, anche se le sue parole erano affilate, piene di spigoli. L’aveva invitato nello studio, gli aveva detto di accomodarsi sulla poltrona accanto ai grossi tomi di Shakespeare e di Schiller: i libri, che avevano le copertine dorate, erano allineati innanzitutto in ordine alfabetico, e poi in base al peso. Era stato a casa di quella signora già diverse volte, e si augurò che cominciasse a parlare della neve, che cadeva come uno straccio sfilacciato e bagnato dal cielo liso. L’ultima volta, lei l’aveva invitato a sedersi sulla stessa poltrona, e lui era rimasto in silenzio mentre lei non aveva fatto niente, assolutamente niente; si era limitata a fissarlo in maniera indelicata, sorseggiando il vino pregiato, che di sicuro costava una fortuna.

«Pensavo che non mi sarei più ripresa». I frammenti di quelle parole gli turbinarono in faccia. «Facevo l’insegnante in una scuola di campagna, e mettevo da parte quel misero stipendio. Mettevo da parte anche i soldi che guadagnavo con le lezioni private in quel villaggio remoto, anche se il più delle volte i genitori dei miei studenti mi pagavano con fagioli, pomodori, uova; molto di rado in monete. I lev bulgari che guadagnavo li conservavo nel cuscino».

Era difficile immaginarsi quella donna raffinata ed elegante, sdraiata su un cuscino cencioso con un rotolo sudaticcio di banconote all’interno.

«Risparmiai a sufficienza da acquistare una piccola casa. Le case in campagna non sono costose, sai, ma il villaggio era proprio un posto selvaggio: d’inverno ululavano i lupi e sull’albero di tiglio, nel cortile della padrona di casa, ci vivevano i gufi. L’autunno portava i funghi che crescevano nottetempo di fronte alla mia porta. Per amore dei miei studenti, sopportavo lupi e gufi. Ogni sera, non erano le notizie del telegiornale a invadere la mia stanza, bensì il ringhiare di quel branco di lupi. E poi, diedi tutti i miei risparmi a lui». Quelle parole gli annodarono un cappio di ghiaccio attorno al bicchiere. Quando si erano incontrati la prima volta non si erano baciati, ma avevano subito fatto l’amore.

«Lui era importante per me», continuò la donna. «A quel tempo, pensavo che gli esseri umani fossero destinati gli uni agli altri. Banale, no? Credevo che con lui la mia vita avesse senso, perché ero sbocciata mentre lui raccoglieva i funghi nel mio giardino, e la sera tardi passeggiava in compagnia dei gufi perché voleva sondare il buio della notte. Era un poeta, perciò mi dedicava le sue poesie, ma le dedicava anche al fiume e a una coppia di gufi. Quando non lo vedevo, temevo di morire, con il sangue che si dissolveva a causa della sua assenza. Di sera, di giorno, di notte correvo a casa sua, che si trovava al confine del villaggio, ma in realtà tutte le case si trovavano in periferia, perché in centro c’erano soltanto il municipio e l’ufficio del sindaco.

«La mia camera era sempre in disordine; il pavimento e la credenza erano ricoperti da un grosso strato di polvere, e spesso mi chiedevo da dove venisse tutta quella polvere perché il villaggio era pulito. La strada, sì, era tutta impolverata, quindi forse erano il tempo e le nuvole che mutavano in polvere».

Lui faticava a immaginarsi il disordine e la polvere nella camera di quella donna, perché nella sala in cui si trovavano adesso persino le ombre dei vasi si proiettavano in modo simmetrico sul tappeto persiano. I gioielli d’oro, la collezione di zaffiri e le spade antiche scintillavano con una luce calda: là dentro non c’era nemmeno un granello minuscolo di polvere.

Zdravka Evtimova

«Lo stipendio arrivava in ritardo di diversi mesi. Io sognavo la casa che avrei comprato, lui sognava di diventare un grande poeta. Gli chiedevo, “Ma io non ti basto?” Non gli bastavo, ma non aveva soldi a sufficienza per trasferirsi a Sofia, eppure sapevo che sarebbe diventato un grand’uomo e non riuscivo a vivere senza le sue poesie, che leggevo al mattino, la sera, e negli intervalli a scuola. Gli davo ogni centesimo che mettevo da parte, erano i soldi che mi davano i contadini, quando mi pagavano dopo il raccolto, dopo aver venduto i fagioli e il frumento.

«Te li restituirò», mi rassicurava, e io sapevo che l’avrebbe fatto perché non mi mentiva mai, e quindi credevo alle sue parole, così come credevo alle nuvole e al fiume che d’estate non si prosciugava mai. Quando mi promise che sarebbe tornato per il semestre di primavera, mi augurai che avrebbe fatto esplodere il cuore della gente con le sue poesie».

Lui si chiese perché gli volesse raccontare proprio quella storia. Francamente si sentiva molto meglio quando gli occhi di quella donna, che erano distanti e alienati, non indugiavano sul suo viso, scrutandolo a fondo. Nonostante quei racconti, non si sentiva trasportato nell’atmosfera di quel piccolo paese dove il fiume non si prosciugava mai, né gli importava granché del poeta, né di cosa aveva fatto, perché lui il poeta lo conosceva.

«In cambio dei pomodori e del granturco che coltivavano, i contadini del paese ricevevano un mucchio di banconote sudicie, e con quelle garantivano un briciolo d’istruzione ai loro figli, che così potevano leggere e analizzare i racconti di Storie selvagge[1] e di altre belle opere letterarie che non portavano mai bene, a nessuno.

«Poi un giorno il mio poeta se ne andò, e mi arrivò una sua lettera in cui mi spiegava quanto fosse difficile trovare un appartamento in affitto a Sofia, e mi narrava anche la sua grande solitudine. Nella busta c’erano due poesie per me, e in qualche modo l’ululato dei lupi si trasformò nel sentiero della mia felicità, mentre i suoi versi sparsero scaglie di luce sull’intero villaggio che aveva soltanto periferie, e nessun centro. C’erano anche il municipio e il gabinetto del sindaco, e ogni tanto c’era anche il vecchio amico del sindaco, quello delle truppe armate.

«Quella fu la sola e unica lettera che Nikolaj mi spedì e la incollai al muro, accanto al calendario, perché ormai avevo perso il senno. Per ogni giorno che non arrivavano sue notizie, cerchiavo di rosso una parola nella sua unica lettera. Alla fine i cerchi rossi attorno alle parole erano così numerosi che ci avrei potuto costruite una piramide grondante di sangue.

«Dopo aver passato un paio di mesi in compagnia dei gufi, i contadini dei paesini vicini cominciarono a insinuare che fossi un po’ svitata.

«Smisero di mandare i loro figli a lezione da me, e così non avevo più nessuno a cui dare ripetizioni. Un giorno ricevetti un pacchetto: dentro c’era una rivista su cui erano state pubblicate le poesie di Nikolaj, più l’invito al matrimonio di Nikolaj, a cui mi si chiedeva gentilmente di partecipare. Su quell’invito c’era scritto che Nikolaj si sarebbe sposato con una certa Milla Kirova, e c’era anche l’indirizzo del ristorante, che si chiamava “Bulgaria”.

«Poi mi venne l’anemia.

«Non riuscivo a mangiare, perché l’odore del cibo mi dava la nausea, una nausea violenta, perciò vomitavo quando vedevo i gufi, vomitavo quando mi parlava la gente e di conseguenza tutti cominciarono a evitarmi: non soltanto i miei giovani studenti, ma anche i loro genitori che facevano tutto il giro del villaggio pur di non incontrarmi, ma non m’importava. Ostinata com’ero, continuai ad andare a scuola, nell’unica classe in cui si tenevano le lezioni, ma gli studenti avevano paura di me, perciò se ne stavano raggruppati sulla soglia dell’aula sbirciando dentro assieme al sindaco e al suo amico delle truppe armate. I lupi ululavano dalla lavagna, senza sosta. Un giorno il sindaco e il suo vecchio amico mi trascinarono fuori dalla classe e mi caricarono di forza sull’ambulanza che di solito giungeva in paese quando moriva qualcuno. Fu il sindaco in persona a guidare l’ambulanza fino a Radomir, dove si trovava l’ospedale della contea.

«Non ricordo per quanto tempo vidi i gufi, i lupi, la periferia del villaggio, la lettera di Nikolaj e i cerchi d’inchiostro rosso attorno alle sue parole. Mi ricordo però che mi strappai dal braccio l’ago della flebo, con cui i dottori mi iniettavano le medicine per farmi tornare umana.

«Una settimana, o forse due, più tardi mi trascinai a fatica fuori dall’ospedale scarpinando verso il villaggio, e lungo la strada si fermò un camion a darmi un passaggio. Accettai, obbedendo alle voglie del camionista, e feci cose inimmaginabili. Quel mese, malata e infradiciata di neve, ogni sera a cena mangiavo un pezzo della rivista con le poesie di Nikolaj. Il camionista non era in grado di capire che mi nutrivo di poesia, sì, mangiavo la poesia, e allora mi chiese se ci stavo tutta con la testa, ma non credo che mi tenesse sul sedile del passeggero per la mia testa, né era per la mia testa che deviava dal percorso abituale e svoltava nei boschi nelle vicinanze, infrascandosi in una casupola di campagna, dove mi offriva in regalo ai suoi cugini.

«Com’era prevedibile, persi il mio lavoro da maestra nel villaggio con i gufi e l’unica classe a scuola. Persi i funghi e le montagne, persi anche gli ululati dei lupi, ma a volte riesco ancora a sentirli, soprattutto quando bevo questo vino».

Lui evitò gli occhi della donna, freddi e distanti come il verso stridulo dei gufi di cui raccontava. Il suo viso era l’ululato del lupo che azzannava le copertine dorate dei libri.

«Non avevo soldi, non avevo nemmeno più vestiti. I maglioni che indossavo puzzavano di camionisti, di boschi e cugini, ma almeno non avevano l’odore di Nikolaj. Nella mia testa non esisteva più un villaggio, né il municipio con il sindaco, né il suo vecchio compare delle truppe armate».

La donna si azzittì, mentre stropicciava con gli occhi la collezione di spade antiche: in realtà, quella stanza era una galleria d’arte, e nei quadri appesi alle pareti pioveva di continuo. C’erano disegni in bianco e nero, e anche una collezione di zaffiri e oro ormai annerito. Quegli oggetti stridenti dissonavano dai boschi sul ciglio della strada, dai camionisti bruti e dai lupi che ululavano sulle montagne. Forse le piogge avevano destinazioni diverse: alcune erano riservate ai libri con le copertine dorate, altre rimasero imprigionate in eterno negli occhi algidi di quella donna.

Lui non capiva perché lei gli offrisse quel vino pregiato che probabilmente costava quanto una casa con i gufi nelle soffitte e i funghi nei cortili. Forse costava addirittura di più dell’intero villaggio che aveva i sobborghi e il municipio del sindaco, ma nessun centro storico.

«Tuo marito tornerà presto», l’avvertì lui, e rimase sbalordito quando lei non reagì: era davvero una donna imperturbabile.

«No, Petar non tornerà presto», replicò lei. «Sei un uomo silenzioso, e mi piaci per questo. È davvero un piacere parlare con te.

«Sai, all’inizio facevo la governante per lui, per il signor Petar Savov. Immagina il caos nei boschi che mi era così familiare; immagina i quaderni, i fogli di carta, i dizionari che ricoprivano interamente la mia scrivania e il letto. C’erano anche le poesie di Nikolaj, incollate ai cassetti del comò, al tavolo e allo specchio. Avevo costruito i muri della mia stanza con la poesia, i gufi e la luna. Non trovavo mai le penne o la borsa, perché non sapevo mai dove le riponevo. Nella mia testa c’erano soltanto le parole che Nikolaj aveva scritto per me, e per i miei fiori secchi in una bottiglia di plastica vuota.

«Nella casa del signor Savov tutte le spade erano inclinate di quarantacinque gradi rispetto alla base. Il broccato dei divani distava 12,5 centimetri esatti dal pavimento.

«A quel tempo, sapevo cucinare soltanto le uova strapazzate e mungevo la mucca del padrone di casa, bevendo il latte direttamente dal secchio. Durante le pause dal lavoro, se mi veniva fame mangiavo pane e acetosella e bevevo tuorli d’uovo crudi e acqua piovana. Il signor Savov adorava la cucina francese e così assunse un cuoco di Fevre-sur-Mere affinché m’insegnasse a cucinare le pietanze francesi. Fu un’agonia memorizzare i nomi delle 127 spezie che il cuoco francese aveva portato con sé. Ma te l’immagini, io che cucino l’anatra affumicata con lo zucchero di canna, la salsa di caramello e l’uvetta passa. Prima d’allora avevo cucinato solo patate lesse, e nient’altro. Dovevo sistemare i due cucchiai, grandi cinque centimetri, a 8,6 centimetri dalla salsa di ostriche e i tre coltelli, lunghi quasi otto centimetri, a due centimetri dai cucchiai».

Il vino delle vecchie cantine di Bordeaux gli bruciava in gola. Le parole di quella donna erano anatre pazze in salsa di caramello e uvetta passa, e lui riusciva a sentirne le ali che gli sbattevano in faccia.

«No, non riesco a immaginarmelo», mormorò lui.

«Il signor Savov mi diede il benservito diverse volte, perciò andai a stare in una soffitta di proprietà di due donne turche che vendevano abiti di seconda mano al Mercato delle casalinghe. Mi permisero di restare in quella soffitta, perché in cambio insegnavo il bulgaro alle due turche. Una di loro mi disse, “I tuoi occhi sono fantastici”. Non le interessavano solo i miei occhi, ma quando continuò a dirmi cos’altro avevo di fantastico, scappai e me ne andai a passeggiare al Mercato delle casalinghe. A mezzanotte quello era un bel posto silenzioso, senza calca, senza gente che sbraitava e comprava; le bancarelle vuote assomigliavano a gufi che incombevano sui marciapiedi.

«Andai a far visita a un’anziana signora e il suo gatto, che era grande quasi quanto la vecchina. La porta di quella casa era sempre spalancata, come il municipio del villaggio. La vecchina camminava a fatica, boccheggiava e si strozzava, e quando varcai la soglia di casa sua minacciò di lanciarmi tante maledizioni, ma non avevo paura delle maledizioni perché avevo mangiato tante pagine di poesia, e tanti camion mi avevano dato un passaggio per andare dai gufi al villaggio, di ritorno dall’ospedale. Nel frattempo, imparai i nomi delle 127 spezie della cucina francese, e ogni mattina facevo il letto del signor Savov, ripiegando il broccato a 12,5 centimetri esatti dal pavimento.

«Ancora non so perché il signor Savov mandò la sua guardia del corpo a riprendermi affinché mi riportasse a casa sua. Di sicuro non lo fece perché avevo incollato dozzine di pagine del libro Storie selvagge su tutto lo sgabuzzino in cui mi aveva permesso di trasferirmi. Le lettere sulle pagine mi ricordavano i bambini ai quali avevo insegnato a leggere e a scrivere; mi ricordavano i loro genitori che mi pagavano in natura, con i pomodori e i peperoncini piccanti che raccoglievano dagli orti miseri. Di certo, il signor Savov non mi riportò a casa sua perché mi ero lasciata dietro un mucchio di jeans e magliette di seconda mano.

«Era stata la donna turca che si era complimentata per i miei occhi fantastici a regalarmi tutti quei vestiti. Una volta mi chiese di recitare “Visita la casa di tua madre”[2] per lei, e mentre io recitavo quei versi, lei pianse per la casa della madre, per gli alberi di ciliegio vaporosi di boccioli bianchi, e le lacrime di quella turca mi piovvero sulle mani e lei voleva berle, voleva bere le sue stesse lacrime dalle mie mani, ma a quel punto scappai e mi rifugiai dalla vecchina e dal suo gatto.

«La vecchia signora aveva smesso di lanciarmi maledizioni perché una volta mi diede dei soldi chiedendomi di comprarle l’aspirina: lei combatteva la morte con l’aspirina, sperando di vincere la battaglia. Non le rubai i soldi e quando ritornai dalla farmacia, invece delle solite maledizioni mi donò la sua piena benedizione, che però mi portò granché bene. Una volta la vecchina e io recitammo insieme “Ruh”[3] di Goethe, che significa “pace”, e l’anziana signora si mise a piangere, ma non per la fame o la solitudine, bensì per la sua ombra che svolazzava oltre il Mercato delle casalinghe e nessuno, tranne me, era in grado di vedere la morte ormai prossima a varcare la sua porta, che restava sempre aperta.

«Gli uomini del signor Savov mi trascinarono via dalla soffitta delle due turche, e anche dall’ombra della vecchina e dai lamenti disperati del suo gatto, e mi riportarono nello sgabuzzino, dove i muri mi raccontavano le storie selvagge: in realtà, quei muri erano gli studenti ai quali avevo insegnato nell’unica classe della mia vita. Quando Savov mi chiese perché sprecassi il mio tempo con la feccia del Mercato delle casalinghe, gli mentii dicendo che volevo farmi suora.

«Savov è un uomo silenzioso come te, ma non beve: si limita a starsene seduto sulla poltrona, osservandomi tutto concentrato mentre metto in ordine i cucchiai, le spade, i sigari. Dopo il mio ritorno a casa, cacciò la fotomodella che viveva con lui, apparentemente senza alcun motivo, forse perché la ragazza aveva bruciato tutti i miei libri nel ripostiglio. Savov non doveva dimostrarmi che era un genio, perché sapevo che non lo era.

«Soltanto dopo la nascita di nostro figlio, quando i dottori decretarono che il bambino era normale, lui smise di cacciarmi dal ripostiglio e mi proibì di andare a passeggiare al Mercato delle casalinghe, ma io ci andavo lo stesso. Speravo che la vecchia signora e io potessimo recitare “Ruh” insieme, ancora una volta, ma la sua ombra era già svanita oltre le nuvole e la sua casa adesso era chiusa da una robusta porta di metallo. Non trovai il gatto della vecchina da nessuna parte, pur cercandolo ovunque, e quando incrociai la donna turca, mi implorò dicendomi : “Ti darò la migliore moneta d’oro di mia madre. Per favore, resta con noi”.

«Il figlio di Savov è un ragazzo sano, e lui lo mostra con orgoglio agli amici. Ora conosco tutte le spezie della cucina francese, bavarese e italiana e sono in grado di preparare gli spaghetti con ventuno sughi diversi. Tutte le coperte di broccato in questa villa distano dal pavimento esattamente 12,5 centimetri.

«Finisci il vino, per favore, e preparati così per me sarà più facile. Spero che mio marito ci scopra insieme perché non ha più alcuna ragione di tenermi qui. Ora i soldi ce li ho, e ne ho abbastanza da comprare l’unica classe di quel villaggio remoto».

Lui si alzò dalla poltrona e fece per congedarsi, ma lei era una donna generosa e gli aveva lasciato una bella somma su un piattino, a 12,5 centimetri esatti dalla collezione di zaffiri, proprio come aveva fatto la prima volta.

Lei lo guardò e lui, tremando, strinse forte il bicchiere di vino pregiato che teneva in mano.

«Nikolaj ti manda questi», disse lui. Erano parole taglienti, come spade antiche nell’atmosfera dorata dei libri nello studio. «Sono i soldi che ti doveva. Mi ha ingaggiato affinché ti trovassi e saldassi il suo debito». Quelle banconote erano serpenti e ululavano come lupi. «Nikolaj ti ha cercato, hai capito?»

La donna bevve un sorso di vino ma la sua mano, che era esile come il fiume che mai si prosciugava d’estate, restò immobile senza nemmeno provare ad allungarsi verso il denaro.

«Dopo averti spedito la rivista con le sue poesie, non è riuscito a scrivere più niente», le riferì l’uomo.

[1] Storie selvagge è una raccolta di racconti dello scrittore bulgaro Nikolaj Haitov. [N.d.A.]

[2] È una poesia dell’amato Dimčo Debeljanov (1887-1916), poeta simbolista bulgaro, tradusse i simbolisti russi e francesi. Viveva in condizioni di estrema povertà e solitudine, e ciò lo spinse ad arruolarsi e a partire in guerra; morì a soli 29 anni sul fronte macedone. [N.d.T.]

[3] Sempre da Wandrers Nachtlied di Goethe. [N.d.T.]

 

Estratto da La donna che mangiava poesie di Zdravka Evtimova.
© 2019 Besa Muci
Per gentile concessione dell’editore

 

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