Nel Libro della Genesi il nome della donna creata da Dio viene indicato già nel primo capitolo (“l’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi”, Gen 1,20), ma bisogna giungere al quarto capitolo (Gen 4,25) per conoscere finalmente l’identità del marito, Adamo, finora presentato unicamente come “l’uomo”, in quanto rappresentante dell’umanità. Furono i traduttori della Bibbia ebraica, prima greci e poi latini, che resero l’espressione ha-‘ȃdȃm, nome comune semitico che significa “l’uomo”, con valore collettivo indicante la specie umana, con il nome proprio Adamo.
Gli artisti da sempre hanno raffigurato il primo uomo e la prima donna con fattezze non dissimili dai loro contemporanei. Questo perché in passato le conoscenze scientifiche non erano ancora sviluppate, e si calcolava il creato dal computo del Libro della Genesi, che datava la creazione dell’uomo a circa cinque/seimila anni prima della nascita del Cristo. Ma i progressi compiuti negli ultimi secoli dalla paleontologia, dall’archeologia, dall’antropologia e dalla biologia hanno dimostrato che la comparsa del primo essere umano sulla terra, un ominide che si separava dallo scimpanzé, è avvenuta milioni di anni fa, pertanto se si vuole interpretare il racconto della creazione come un avvenimento storico, l’uomo e la donna creati da Dio assomigliavano più a degli scimpanzé che a degli esseri umani. A meno che, e alcuni hanno sostenuto e difendono ancora oggi questa tesi, sì, effettivamente il Creatore creò l’uomo e la donna perfetti, belli, poi la colpa li ha imbruttiti e ridotti al rango di scimmie antropomorfe.
Può interessarti anche
Accusato insieme a Eva di aver mangiato dell’albero di cui il Signore aveva espressamente comandato “Non devi mangiare” (Gen 3,17), è contro questo uomo-scimmia, dal cervello limitato e da capacità intellettuali più che modeste, che si sarebbe scagliato il tremendo castigo del Creatore, con una condanna sproporzionata, che avrebbe coinvolto per sempre tutto il genere umano. Tra i castighi scagliati dall’irato Creatore sulla sua stessa creazione, il primo a farne le spese è il serpente, l’unico dei tre colpevoli a essere maledetto (“Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”, Gen 3,14); poi tocca alla donna, che non solo partorirà i figli con dolore, ma sarà attratta e al contempo dominata dal marito (Gen 3,16). Non pago, il Padreterno scaglia la maledizione addirittura alla terra (“maledetto il suolo per causa tua!… Spine e cardi produrrà per te”, Gen 3,17.18). Infine, viene castigato l’uomo, che Dio aveva creato a sua immagine (Gen 1,27), e la pena è che è destinato a morire: “Polvere tu sei e in polvere ritornerai!” (Gen 3,19). Stando al racconto biblico la maledizione però non sembra aver avuto subito effetto, tanto che Adamo, dopo Abele e Caino, ebbe ancora un figlio, Set, alla veneranda età di centotrenta anni. Poi visse serenamente ancora ottocento anni, continuando a sfornare figli e figlie, per finalmente morire a novecentotrenta anni (Gen 5,1-5), anche se il record della longevità non fu il suo ma di suo nipote Matusalemme, morto a ben novecentosessantanove anni (Gen 5,25). Poi, visto che gli uomini tardavano a morire, ci pensò il Creatore a fissare il tetto massimo della vita a centoventi anni (Gen 6,3), relativizzando così la sua maledizione.
Può interessarti anche
La Chiesa cattolica per secoli, fin quando ha potuto, ha difeso strenuamente e a oltranza la storicità di questo racconto. Ancora nel secolo scorso si prendeva posizione contro le interpretazioni che negavano il carattere storico dei primi capitoli della Genesi (Humani Generis, Denz. 2329-2330), per poi arrendersi e dover ammettere che i primi undici capitoli del Libro della Genesi sono una narrazione che ha valore teologico e non storico. Il racconto della creazione non è il rimpianto per un paradiso irrimediabilmente perduto, ma la profezia di un paradiso da costruire, come ha intuito Paolo affermando che “l’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio”, una creazione che “geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,19.22). Naturalmente gli uomini c’erano arrivati secoli prima, e per questo condannati, come Galileo Galilei, il quale asseriva giustamente che la Bibbia non insegna come va il cielo, ma come si va in cielo.
È ormai indiscutibile che la fine di ogni essere vivente è sempre esistita in natura come normale conclusione del ciclo biologico, che la morte non è la conseguenza di un ipotetico peccato dell’uomo (il termine peccato è assente nel racconto della creazione). Assolta definitivamente dall’idea di una colpa e di un castigo, occorre tornare ad avere una visione il più possibile serena della morte, e viverla come i patriarchi biblici, che evidentemente nulla sapevano della colpa di Adamo, e che morivano, come Abramo, “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati” (Gen 25,7) .
L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita, Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ da poco uscito per Garzanti L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita.