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Gesualdo Bufalino, scrittore metafisico

Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino ritratto da Giuseppe Leone

È leggenda, ma mica poi tanto, che a scoprire il talento di Gesualdo Bufalino, più che anonimo professore di Comiso (Ragusa), sperdutissimo paese di provincia nel sudest della Sicilia, sia stata una scommessa. L’hanno fatta Elvira Giorgianni, la signora Sellerio, e Leonardo Sciascia, quando in casa editrice a Palermo arrivò un plico contenente lastre fotografiche di fine ‘800, appartenute a due famiglie notabili del piccolo paese in provincia di Ragusa, gli Jacono e i Meli. Le accompagnava uno scritto, un’introduzione al paese, un’esegesi della vita rurale, firmato da un professore dell’istituto Magistrale (come nelle serenate cantate da Battiato, ma questa è un’altra storia).

“Questo Bufalino ha un romanzo nel cassetto”, azzardò la signora dell’editoria. Posò la sigaretta, prese il telefono, e vinse.

Gesualdo Bufalino esordì come scrittore a sessantuno anni. Era nato il 15 novembre del 1920: se un incidente non lo avesse ucciso nel 1996, quest’anno festeggerebbe cent’anni. Uomo di sconfinata cultura, ai limiti dell’ossessione: per ovviare alle mancanze della biblioteca del suo paese, prese a tradurre dall’italiano i testi francesi che avrebbe voluto leggere in originale, sperimentando una sorta di retroversione.

Taciturno e schivo, Dino aveva un obiettivo: realizzare una biblioteca universale, segnando con dovizia su una sua personale lista ogni nuovo acquisto aggiunto alla sua libreria. Quella collezione oggi è custodita dalla Fondazione che porta il suo nome: quasi diecimila testi, cui si aggiungono i manoscritti martoriati di correzioni e limature, riscritture a mano, a macchina e poi di nuovo a mano, i dischi – tantissimi – tutti di classica e di jazz, e i ritratti, con Sciascia, con Consolo, che gli faceva il suo amico Peppino Leone. Multimediale prima che venisse coniata la parola, il professore di Comiso allegò alla sua prima opera un’appendice esplicativa, linkando per iscritto le opere e le musiche citate nel testo.

Ricca d’un barocco mai eccessivo, mai superfluo, la prosa bufaliniana è una poesia senza versi, d’inarrivabile potenza evocativa, ricercata fino al cesello, densa di metafore e ossimori, vero vezzo dell’autore, sua inimitabile cifra stilistica. Forte d’una umbratile ironia, è l’autore stesso a rivelarsi nella pagina, in ogni aggettivo, in ogni metafora, che immancabilmente si rivela più vera del vero.

Icastico eppure esagerato, Gesualdo Bufalino era praticamente sé stesso e il suo contrario. E lo scriveva compiaciuto, nei romanzi, negli elzeviri per la stampa nazionale, e nei frammenti aforistici confluiti nelle raccolte (su tutti La luce e il lutto, L’amaro miele, Il fiele ibleo…).

“Metà di me mi detesta, e cerca alleati”: come autobiografia minima può bastare.

Il successo lo travolse senza distoglierlo da una timidezza ritrosa, quasi restìa, ai limiti del senso di colpa per essere infine venuto allo scoperto, tradendo un manoscritto cui avrebbe potuto continuare a garantire, ancora, costanti e infinite limature.

Diceria dell’untore è stato l’inizio del viaggio.

Diceria dell’untore, Sellerio, 1981

È il romanzo d’esordio, ha fatto del professore uno scrittore, è stato il caso letterario dell’anno 1981, immediato premio Campiello per un autore che debuttò nel tempo della pensione. La trama è un’autobiografia romanzata, lo stile letterario è un sontuoso barocchismo, cesellato come una cattedrale, unico, ipnotico, ricercato, esagerato: come Bufalino, si vede subito, c’è solo Bufalino.

La storia è la sua storia di sopravvissuto, sopravvissuto a una guerra mondiale in forza di una malattia mortale: autobiografia romanzata del tempo passato in sanatorio nel 1946, moribondo in attesa della fine insieme a compagni d’agonia dai quali nessuna speranza traspare, piuttosto una colpa. La colpa involontaria d’essere vivo dove tutto muore, imbelle per forza, inabile a combattere ed esonerato controvoglia: Bufalino scrittore, e Bufalino protagonista, lascia trasparire un senso di colpa del sopravvissuto.

“Un re forestiero m’era venuto ad abitare sotto le costole, un innominabile Minotauro, a cui dovevo giorno per giorno in tributo una libbra della mia vita”. La malattia come estraneo, la sopravvivenza come colpa: le storie del sanatorio della Rocca riescono a fare il paio con quelle di Se questo è un uomo di Primo Levi, per certi versi: mentre tutto muore, sopravvivere stride, sopravvivere pesa. E alla Rocca la colpa della sopravvivenza è doppia: alla guerra, prima, e alla tisi poi: “era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire”, c’è quest’ombra tra i protagonisti.

Diceria dell’untore svela il talento spietato del Bufalino scrittore, vivo per combinazione (“d’ordinario un pensiero mi consola: sono un uomo involontario, dunque un uomo innocente”), famoso suo malgrado.

Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Sellerio, 1984

“Fui giovane e felice un’estate, nel ’51. Né prima né dopo: quell’estate”. L’incipit di Argo il cieco vale da solo il romanzo. Un’altra volta il memoriale si confonde con il romanzo, un’altra volta Bufalino mette insieme la sua vita con quella del protagonista, ricordando a distanza di anni e di chilometri, quella che fu la sua giovinezza posticipata, il suo riscatto di adolescenza: un narratore ormai anziano ammette con candido dolore di non aver mai avuto vent’anni, “per un motivo che so io” (e che sa chi ha letto la Diceria), e di essersi voluto rifare nell’anno dei trenta. Così si dipana il ricordo, inframmezzato di personaggi e di aneddoti, di fuitine e di amori fragilissimi. Un alternarsi ilarotragico di gioia e struggimento, nello stile costitutivamente melanconico dello scrittore siciliano, restituisce un ritratto bifronte di un tempo che fu e di un tempo che è, di un uomo che avrebbe potuto essere e che rimpiange il non più.

L’uomo invaso, Bompiani, 1986

Non un romanzo, ma una raccolta dei racconti in cui Gesualdo Bufalino dà prova della sconfinata cultura letteraria che sta alla base della sua scrittura: autori e personaggi si rincorrono in pagina, da Baudelaire a Ferdinando I, da Gorgia a Jack lo squartatore, fino a sconfinare nella storia sacra, e nella mitologia, con l’intervento di Noè, di Euridice e della maschera siciliana Giufà. Ricorrenti anche i temi: su tutti il terribile anelito alla vita, il dialogo incessante con ciò che è invisibile, e la memoria. La memoria, rincorsa, sognata, ricordata. La memoria, che dice l’umano.

Le menzogne della notte, Bompiani, 1988

Il capolavoro bufaliniano, guadagnò lo Strega nell’anno della sua uscita. Un giallo metafisico, raffinatissimo e non dichiarato: che ci sia un mistero da risolvere si capisce strada facendo, e quali siano le menzogne del titolo non lo svela che l’ultima pagina. Quattro i protagonisti, un deus ex machina mai visto e sempre temuto, una figura divina, forse il destino, forse Domineiddio, che non visto dà le carte.

Ancora una volta condannati a morte, come nel romanzo d’esordio, condannati a morte rinchiusi in una prigione borbonica, quattro personaggi raccontano le vite, i crimini e le ingiustizie fatte e subìte. Quattro storie credibili e vere, o forse del tutto inventate per giustificare un’innocenza presunta.

La padronanza della lingua qui è sfacciata, inarrivabile: vi sfidiamo a indovinare quale azione meschina e adolescenziale guadagni una descrizione come “tentativo di guarirsi per un attimo del crepacuore di non essere Dio”. Ed è tutto un rimando, questa perla di libro, a partire dall’esergo, che forse è una dedica, forse una sfida: sempre alla vita, o sempre alla morte: “a noi due”.

Qui pro quo, Bompiani, 1991

 

Un giallo editoriale, propriamente: l’indagine, qui, si svolge intorno alla morte di un editore. Più un gioco che un romanzo, un divertissement letterario, filosofico al modo bufaliniano: anche qui, l’inatteso è da attendersi, con una vittima che non accetta di non partecipare alle indagini, e una soluzione che non accetta di essere definitiva.

Calende greche, ricordi di una vita immaginaria, Bompiani, 1992

Inizia con un curriculum messo in versi: mai menziona la vita, né mai la morte, ma di questo parla. Di vita. E di morte. Il protagonista lo incontriamo nel grembo, e lo lasciamo nel legno. In mezzo, tutto il resto. “È nato. Ha cominciato a vivere, ha cominciato a morire”. È l’ipotesi d’un romanzo, l’autobiografia di una fine, la storia immaginaria eppure realistica di una vita, da prima del primo respiro fino all’ultimo, dalla culla alla tomba. Metafisica riflessione sull’esistere.

Il Guerrin Meschino, Bompiani, 1993

L’opra dei Pupi è una cosa seria, in Sicilia. Specie per i ragazzini cresciuti tra le due guerre, che altri intrattenimenti non potevano conoscere che quelli tramandati oralmente, sogni armati dei Paladini di Francia. Il bambino cresciuto Dino immagina qui un’opera dei vinti, un eroe antitetico a Rolando e Orlando, un Guerrino che è “meschino” più nel senso sicilianissimo del compatimento al “poverino” che del giudizio al “piccino”. Prosa e poesia convivono fino allo spezzarsi dei fili, fino a che non interviene il puparo, o il romanziere, a riprendere in mano la trama. Per dire che no, la trama non c’è: i personaggi abbandonano il campo di battaglia, resta il narratore, il suo cuore, e il viaggio picaresco della canzone degli eroi si fa piccola, quotidiana, e quindi vera.

Tommaso e il fotografo cieco, Bompiani 1996

Più che un romanzo è una profezia. Pubblicato nell’anno dell’incidente mortale che coinvolse l’autore, Tommaso è una collezione di stilemi bufaliniani, una summa dei suoi topoi. Ritorna il tema della fine, della melancolia, nuovamente legato a personaggi che paiono marionette da opera dei pupi. Il protagonista pare rinunciare all’azione, lasciando il lavoro da giornalista e rintanandosi in un seminterrato romano da cui si limita a osservare il mondo contemporaneo per come è. Ossimorica fin dal titolo, la visione di un cieco guida la composizione del testo, che si chiude in un cerchio, lasciando domande più che risposte, lasciando riflessioni più che certezze. In attesa che continui, chissà. Ma intanto la macchina è andata fuori strada, e la penna si è spezzata.

nota: nella foto grande Gesualdo Bufalino ritratto da Giuseppe Leone

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