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La Romagna carnale e ironica dei romanzi di Marino Moretti, poeta crepuscolare per eccellenza

moretti bompiani

Si comincia con una “grande sciagura”, e cioè “la morte del nostro maggior pescivendolo” in quel di Cesenatico, ed una galleria di personaggi, i commercianti di pesce dai soprannomi e dai costumi esilaranti, grandeggianti di gusto popolare, “gente di pescheria” che “sfoggia anelli e catene d’oro, medaglie, sterline”, abiti bizzarri o alla moda, carta da lettere dove si intrecciano anguille e cefali: Bombi Adamo, Bruto, Piangerai o Trentasei, tanto per fare qualche esempio. E quando uno di loro, anzi il nuovo maggior pescivendolo, per darsi un tono, saluta dicendo “buenos aires”, ecco, il sospetto di essere avvolti da un clima pre-felliniano (non manca nemmeno la prostituta decisamente grassa, un po’ ferina e un po’ di buon cuore) si fa largamente strada.

Siamo invece in un romanzo del poeta crepuscolare per eccellenza, Marino Moretti, universalmente noto per il suo “Piove, è mercoledì, sono a Cesena/ ospite della mia sorella sposa”, in altre parole un autore che, guardandolo dal punto di vista dell’opera poetica, sembrerebbe molto lontano da una scrittura così verticale e persino orgiastica, oltre che ironica e spesso tragicomica.  Ma qui si trasforma, in quella che è ritenuta la sua seconda fase, all’altezza degli Anni Trenta, e proprio a partire da L’Andreana, ora ripubblicato da Bompiani nella collana dei classici contemporanei con una nota al testo di Manuela Ricci e una breve introduzione di Cristiano Cavina.

Da romagnolo, l’autore di Pizzeria per autodidatti apprezza e si diverte, e senza dubbio sente in Moretti qualcosa di famigliare. L’Andreana è infatti una sorta di saga, ilare e tenace; quella di una donna che nella vita perde tutto: i mariti (entrambi “maggior pescivendolo” finché hanno potuto), i figli, ovviamente il benessere economico arrivato a un certo punto a livelli di sfarzo (un po’ kitsch) da grandi ricchi, e ciò nondimeno resiste tenacemente; fino a tornare in pescheria e darsi, incinta a quarant’anni, al tradizionale commercio dei suoi passati uomini, ora sempre più diffusamente femminile.

Marino Moretti amava ripetere che nei suoi libri non c’era una vera trama, ed è vero: ci sono qui, semmai, avvenimenti giustapposti in un crescendo di sventure: ivi compreso la scoperta di un rocambolesco scambio di neonati per la distrazione di un’infermiera, venuto alla luce quando i due sono ormai uomini fatti, senza contare l’inquietante presenza di una attrice di non impermeabile moralità, che essendo di origini poverissime prova un certo gusto nel rovinare i pescivendoli. Nel pasticcio dei figli la povera Andreana si ritrova a dover “cedere” quello che credeva suo e amava più di ogni altra cosa al mondo, bellimbusto allegro e spendaccione, avendone in cambio uno gravemente malato di tisi, mentre la figlia maestrina, attratta dall’attrice, fugge per incerta e perigliosa destinazione.

Un bel disastro. L’autore, a farla breve non si nega nulla, nemmeno i deus ex machina del sensazionale. Il motivo è evidente: tutto sommato si diverte, e con grande libertà può finalmente esercitare la sua “malnota arguzia”, che i critici suoi contemporanei (per esempio un Giovanni Titta Rosa) gli riconoscevano in effetti già a partire dall’esordio crepuscolare, accanto, per questo e gli altri romanzi successivi, a una spiccata attenzione realistica: che però non sembra a tutto dire la vera chiave del suo narrare. C’è sicuramente una conoscenza profonda della vita popolare, fra pescatori e pescivendoli,  venata anche di qualche scivolata bozzettistica; e c’è forse una componente di verismo (siamo in anni in cui per lo scrittore si trattava ancora di liberarsi dell’eredità di D’Annunzio), ma L’Andreana, uscito in prima versione a puntate fra il ‘32 e il ‘33 sulla rivista Pegaso e poi nel ’34 in volume per Mondadori (in seguito varie volte corretto e rivisto), è nell’insieme uno di quei libri che inaugurano, anche stilisticamente, un clima nuovo; in parallelo poniamo con l’esordio di Gadda, nel ’31 su Solaria (i racconti della Madonna dei filosofi). E a parte l’uso del dialetto, molto sorvegliato e mai invadente, dove si alternano la parlata romagnola di Cesenatico e quella veneta di Chioggia, è proprio la sintassi spesso centrifuga con un gioco di scivolamenti tra stile alto e basso, oltre a quello che potremmo definire un amoroso distacco da personaggi e fatti narrati, trasfigurati in impennate visionarie, a far pensare a una comune sensibilità quantomeno in fase di formazione.

La Romagna di Moretti, così carnale, è pervasa da un umorismo particolare, un controcanto ironico al rischio del patetico, che pure viene corso nella struttura a feuilleton del romanzo: un occhio alla narrativa popolare, e un altro a un futuro per lui ancora in quel momento ignoto, quello non solo felliniano ma anche dei cosiddetti narratori delle pianure, uno su tutti, poniamo, Ermanno Cavazzoni. E il romanzo non sembra risentire affatto del tempo passato dalla sua prima stesura. Letto oggi, potrebbe essere addirittura una sorpresa.

 

 

 

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