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Vita e pensieri di uno scrittore “spatriato”: Mario Desiati si racconta

mario desiati

Mario Desiati - foto di Valentina Calledda

Mario Desiati, è appena tornato in libreria (per Einaudi) con Spatriati. Le sta bene la definizione di romanzo “generazionale” per il suo nuovo libro?
“Sicuramente è uno degli aspetti, anche se a volte penso che tutti i romanzi possono essere definiti generazionali. L’immaginario di un autore è pervaso dall’esperienza che ha vissuto fino al momento in cui ha scritto”.

I due protagonisti sono Claudia, una donna in perenne fuga, a cui la provincia sta stretta, e Francesco, che sembra avere un atteggiamento opposto. Lei, che oggi ha 43 anni, in quali caratteristiche dei due personaggi si rivede?
“Sono spatriato come loro. E va aggiunto che spatriato in molti dialetti pugliesi ha una sfumatura in più rispetto al participio di spatriare”.

Quale?
“Va dal balordo al ramingo, dal disorientato, al precario. Spatriato a volte è anche un insulto, un modo per definire in modo spiccio una persona che non ha un posto fisso, non ha un’identità chiara rispetto agli altri. Altre volte è un modo simpatico per definirsi fuori dal coro. Altre volte ancora è semplicemente un’identità fluida, forse più libera, come sono i personaggi di questo romanzo. A Martina Franca (la città delle Murge in cui lo scrittore è nato, ndr) mi hanno dato tante volte dello spatriato, sia gli amici sia i parenti, perché non ho ‘costruito’ una famiglia, non si capisce esattamente che faccio, non sanno dove vivo di preciso. A volte lo hanno detto con affetto, altre con sgomento”.

A proposito di spatriati, lei ha vissuto a lungo a Roma, per un po’ a Milano, e negli ultimi anni a Berlino. Ma è sempre rimasto legato alla sua terra d’origine, la Puglia, spesso presente nei suoi libri. Dove – e come – ha trascorso l’ultimo anno, segnato dalla lunga emergenza sanitaria?
“Ero a Berlino quando è apparsa la prima notizia del virus, mentre tornavo in Italia non pensavo minimamente che sarebbe successo quel che poi è avvenuto. Però avevo una strana sensazione sull’aereo, una parte di me sapeva già che quel distacco da Berlino sarebbe stato molto più lungo del solito. Le cose precipitarono. Poi sono stato a Roma, Puglia, poi di nuovo Roma nella mia tana di Centocelle”. 

Quando ha iniziato a lavorare al nuovo romanzo, e da quanto lo aveva in mente?
“Avevo cominciato Spatriati nell’ottobre del 2015 a casa di Riccardo e Jorge, i miei primi coinquilini berlinesi. Si trattava di appunti e confuse paginette in una prima persona femminile. Come se fosse un monologo. Ho incontrato tanta gente, ho avuto due vite, la Berlino di giorno, e la Berlino di notte. Credo di aver dormito troppo poco per mesi. Ho finito il romanzo nell’estate del 2019, dopo averci lavorato quasi quattro anni e aver attraversato una serie discreta di avventure che hanno ispirato il clima della seconda parte del romanzo. Il giorno in cui finii c’erano quaranta gradi, la gente si buttava nel lago di Weißensee nonostante ci fosse il divieto di farlo. I berlinesi sono molto più simili a noi meridionali che ai tedeschi…”.

Dal punto di vista narrativo quello della pandemia è stato un periodo produttivo? 
“Per nulla. Non ho scritto una riga. E non riuscivo neanche a leggere. Ammiro tutti i miei amici scrittori che sono riusciti a farlo. Alternavo una specie di vuoto, in cui ogni tanto casco, all’editing di due libri che stavo seguendo come editor. Il romanzo lo avevo già consegnato e, in quei mesi, nonostante avessi avuto i primi appunti di editing di Angela Rastelli (editor di Einaudi, ndr) non ho fatto i ‘compiti’, anche se ce n’erano un bel po’ da fare”.

Quindi non ci sono state letture che l’hanno accompagnata in questi mesi passati forzatamente in casa?
“Durante i due mesi del lockdown, anche se leggevo poco e male, ordinavo in modo compulsivo libri di scrittori cechi introvabili… Ota Filip, Ladislav Fuks, Ludvík Vaculík… Mie manie. Poi, in estate, sono andato sotto con la poesia. Amo i poeti giovani, soprattutto i trentenni, sfrontati, appassionati, alcuni vengono dal futuro. La poesia è essenziale per chi scrive romanzi”.

In effetti spesso pubblica versi altrui sui social…
“Sì, come un innamorato. Ho riletto molto Novecento, la Letteratura italiana di Enzo Siciliano, che mi fu maestro. Infine i miei amati pugliesi, scrittori dimenticati come Maria Marcone o Rina Durante, che sono state omaggiate nella Stanza degli spiriti, il capitolo/nota finale del romanzo”.

Progetti per il futuro, personali e letterari? Oppure l’ultimo periodo le ha insegnato (o magari confermato) che è meglio concentrarsi sul presente?
“Ho diverse idee e qualche appunto su un libro più ‘spirituale’, oddio forse qualcosa di più di un appunto a ben pensarci, comunque nel 2022 farò un romanzo per ragazzi”.

Altro?
“Poi ho un progetto che porto avanti da alcuni anni in Germania. Curo, con Judith Krieg, alcune pubblicazioni della collana Europa Erlesen di Wieser Verlag. Siamo riusciti a far tradurre molti scrittori italiani dentro le nostre antologie dedicate alle regioni o le città italiane, autori del passato o del presente, che non avevano neanche una riga tradotta in tedesco. Guardando alle Fiera di Francoforte che avrà come Paese ospite l’Italia nel 2023 – il più grande evento editoriale dedicato all’Italia di questi anni – opero perché più scrittori italiani possibile siano fruibili ai lettori in lingua tedesca”.

In passato ha lavorato molto ai libri altrui, come caporedattore della rivista Nuovi Argomenti, come editor junior della Mondadori a Milano, e poi nella Capitale, in veste di direttore editoriale di Fandango Libri. Nostalgia del suo periodo da editor?
“In realtà, come accennavo prima, non ho mai smesso del tutto. E continuo a farlo parsimoniosamente, ma da una posizione più defilata, molto più nell’ombra, e mi diverto di più. Anch’io pago un lettore di fiducia per confrontarmi prima di consegnare il manoscritto a Einaudi. Massimiliano Catoni è stato paziente come il più perseverante degli abati. Come ho già detto altre volte, e qui mi travesto da trombone, ruolo (quello del trombone) in cui posso eccellere: mi sento abbastanza obsoleto nonostante non sia così vicino alla pensione; appartengo a un’editoria più novecentesca, quella in cui la legge aurea ‘è seminare per raccogliere domani’, cito Ernesto Ferrero, che quell’editoria l’ha vissuta. Quell’editoria e quei libri esistono ancora, al di là di tutte le cassandre. Solo che gli scrittori letterari oggi percorrono strade più tortuose, soprattutto se hanno degli storici venduti molto negativi. Io sono e resto un lettore al servizio di quel genere di scrittori”.

A proposito di bilanci, com’è cambiato il suo approccio alla scrittura dai tempi degli esordi (Neppure quando è notte, uscito per Pequod nel 2003, e Vita precaria e amore eterno, uscito per Mondadori nel 2006)? Pensa che Candore, il suo penultimo romanzo, pubblicato da Einaudi cinque anni fa, abbia segnato una svolta nel suo percorso di autore?
“Mi vergogno profondamente di tutto quello che ho scritto prima di Candore. Ma credo che sia abbastanza normale in tanti scrittori disprezzare quello che si fa da giovani. Mi sembrano libri di un secolo fa. Credo che il rischio maggiore di uno scrittore sia quello di tornare nelle proprie confort zone, oppure di reiterare le cose che sono venute bene una volta, oppure di abbandonarsi completamente alla propria ossessione. I demoni vanno guardati, ma non possono agire liberi e indisturbati. Kafka, quando smise di scrivere, disse in una pagina del suo diario che gli Spiriti avevano preso il sopravvento e gli rigiravano le parole tra le mani. Quella è la fine. Lui l’ha capita e l’ha scritta meglio di tutti”.

Chiudiamo con una domanda che non c’entra con i libri: lei conosce bene il Sud, le sue tante bellezze, ma anche i non pochi problemi. Come verrà fuori il Meridione da questa pandemia? 
“Voglio essere ottimista nonostante la campagna vaccinale balbetti, voglio restare ottimista, Mario, sii ottimista”.

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