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Lo scrittore Carlo Lucarelli e il “racconto dell’ambiguità”

Carlo Lucarelli Gettyeditorial 20-12-2022

Carlo Lucarelli non ha bisogno di presentazioni, così come non hanno bisogno di presentazioni i suoi romanzi, noir e thriller in grado di tenere il lettore con il fiato sospeso fino alle ultime pagine. Lucarelli è tornato in libreria con Bell’abissina (Mondadori), seconda indagine del commissario Marino, agente al servizio dello stato fascista ma segretamente impegnato nella lotta antifascista, a cui contribuisce sabotando il sistema dall’interno.

Marino è un personaggio complesso, pieno di ombre e malinconie, che nel 1940 incrocia sulla sua strada una serie di delitti con punti in comune inquietanti. La storia minuta, fatta di sventurate vicende umane, si mescola nell’indagine di Marino, alla Storia con la esse maiuscola, svelandone le complessità. Una volta ancora, Lucarelli torna alle atmosfere degli esordi e accompagna i lettori in una vicenda che racconta l’Italia di ieri per fare i conti con l’Italia di oggi.

Nell’intervista a ilLibraio.it, lo scrittore e sceneggiatore emiliano parla di gestione della tensione, delle regole o – meglio – dell’assenza di regole del noir, e racconta il suo approccio alla scrittura e alla costruzione di trame e personaggi.

Con Bell’abissina torna in epoca fascista. Ci sono degli elementi che rendono questo momento storico particolarmente congeniale al noir?
“Quando ho cominciato a scrivere romanzi ambientati in quel periodo, è stato per una serie di motivi: il primo è che lo stavo studiando. Però, al di là di questo aspetto, l’epoca fascista è particolarmente congeniale per gli autori che, come me, hanno interesse a raccontare l’ambiguità”.

Perché?
“Significa mettere in scena un detective che è, per un verso, il detective del romanzo giallo, l’eroe della storia, quello che ti prende all’inizio del mistero e ti porta fuori dal tunnel buio in cui non riesci a capire cosa succede. Allo stesso tempo, però, inserendolo in un periodo storico in cui il poliziotto è anche il custode legale della violenza di stato – soprattutto se parliamo di una dittatura complessa come quella fascista -, ecco che il nostro personaggio diventa incredibilmente ambiguo. Il lettore, quindi, tifa per il detective che lo aiuta a dipanare il mistero ma che, contemporaneamente, è l’esecutore di una dittatura. Oltre a questo, si aggiunge anche il fatto che il periodo fascista è pieno di contraddizioni, sembra univoco ma invece ci sono tante sfumature che è bello raccontare con il linguaggio”. 

Il commissario Marino ha una storia e una personalità diversa dal suo altro famoso commissario, De Luca, che opera all’incirca nello stesso periodo. Che cosa lo rende interessante, e a che esigenze di trama risponde questo personaggio?
“All’inizio, nel primo romanzo in cui compare, Indagine non autorizzata, ho scoperto che Marino mi piaceva perché era un vero perdente. Un tizio che cerca di fare delle cose e non ci riesce, cerca di stare al passo con i tempi – che sono quelli dei vincenti, gli anni del consenso al regime, pieno di giovani rampanti – e non ci riesce. Però, pur essendo un perdente, Marino è consapevole di quello che gli accade intorno e ha capito il momento storico in cui si trova. Ed è completamente diverso dal commissario De Luca, che invece questa consapevolezza non ce l’ha. E poi Marino è una persona triste, ferita, che si porta dentro un grande amore tradito”.

Che movimenti consentono di seguire le vicende ambientate nel passato, rispetto alle storie ambientate nella contemporaneità?
“Scriviamo storie ambientate nel passato quando non riusciremmo a raccontare una storia a noi contemporanea senza andarne in continuazione a cercarne le radici, senza girare il cannocchiale dall’altra parte. Insomma, quando ci serve guardare le cose più da lontano. Comportamenti, sensazioni, emozioni che, proiettate nel passato, risultano leggermente diverse, creando una cornice straniante, quasi esotica”.

Cosa ci racconta di noi la cronaca nera? Perché continuiamo a sentire la necessità di fruirne?
“C’è un motivo quasi tecnico: la cronaca nera è di fatto un giallo, e il giallo funziona. Lo scrittore di gialli o di noir racconta storie inventate, costruendole come un mistero, in cui inizialmente non è chiaro cosa succederà, e rivelando gli avvenimenti poco a poco. I fatti di cronaca rispondono allo stesso schema senza che, purtroppo, siano stati inventati: ci interessano perché ci vengono raccontati come un mistero. Poi, al di là di questo, ci interessano perché ci fanno paura. Quello che succede nella metà oscura della vita è qualcosa che spaventa, e le cose che spaventano non lasciano indifferenti, ci incuriosiscono: le dobbiamo affrontare, dobbiamo aprire la porta e guardare cosa c’è dietro. Altrimenti l’alternativa è scappare e chiuderla, quella porta, ma non sarebbe un gran vivere. Ma, soprattutto, dobbiamo raccontare fatti che sembrano più piccoli, perché proprio quando li vai a guardare scopri tutti i dettagli di quanto gli sta attorno”.

Ad esempio?
“Quando qualcuno viene ammazzato in un certo modo, in un certo posto e in un certo periodo, la situazione è diversa rispetto a un omicidio avvenuto in un altro modo e in un’altra epoca. Il caso di cui si occupa il commissario Marino, e le difficoltà che incontra nell’indagine, hanno determinati contorni perché siamo nell’Italia del 1940; se fosse ambientato in Italia o in un altro paese nel 2022, la storia sarebbe diversa, perché sarebbe diverso il contorno”.

E poi ci sono i luoghi, che sono una parte fondamentale delle sue storie.
“Certo, sia i luoghi contemporanei sia quelli del passato. Tra quelli contemporanei c’è la Bologna città-regione di cui parlava Pier Vittorio Tondelli, che va da Piacenza fino a Cattolica, una sorta di Los Angeles. È di fatto uno dei miei personaggi. Tra i luoghi del passato si torna sempre a Bologna, oppure Rimini, o Cattolica e, come scriveva Taibo II in Rivoluzionario di passaggio, a proposito di Città del Messico del 1900: la città che sto vedendo io oggi non è la stessa città di ieri e il divertimento sta tutto lì. La Cattolica che ho raccontato in Bell’abissina è un personaggio storico a tutti gli effetti”.

Come inizia il processo di scrittura?
“Scrivere è una cosa bella, divertente, ma impegnativa. Come scrittori diciamo: è sempre meglio che lavorare, nel senso che, ovviamente, c’è chi fa più fatica di noi, però è comunque un’attività stancante, ed è un mestiere rimandabile. Non sappiamo quanto ci vorrà a scrivere un romanzo, se un giorno o vent’anni, quindi si può sempre rimandarne l’inizio. Pensare: ‘Ma devo cominciare proprio oggi? Lo faccio domani mattina, o domani sera…’. Quindi c’è bisogno di qualcosa che ti inchiodi: un rito per sporcare la pagina bianca”. 

Qual è il suo?
“R
eimpostare tutti i margini, la font del carattere, eccetera: avrei già in un modello, ma devo rifare tutto questo lavoro manualmente e, quando finalmente ho terminato, inizio a scrivere. Però, al di là dei riti, parto sempre da un principio: comincio a scrivere, e poi vedo cosa succede. Quando inizio un romanzo ho un’idea di quello che voglio scrivere molto vaga, di solito solo un mistero iniziale”. 

Quindi non sa neanche chi sia l’assassino?
“Neanche quello, non so assolutamente niente. Quando ho iniziato a scrivere Bell’abissina avevo in mente soltanto degli agenti della polizia presidenziale che, passando attraverso le fogne, scoprono un corpo, e sapevo che quel corpo avrebbe avuto qualcosa a che fare con una storia successiva, in cui sarebbe entrato in azione Marino. Invidio gli altri scrittori che preparano la scaletta, per esempio Piergiorgio Pulixi, che è un ingegnere, come dice lui: prima pensa a ogni aspetto del romanzo, e quando ha il quadro completo è libero di scrivere. Io invece non ci riesco: stabilisco il primo punto e, se mi piace, comincio a scrivere”.

Nel noir ci sono delle regole da seguire (o, piuttosto, da non seguire affatto)?
“È un’altra grande grande diatriba: tutte le volte che un grande scrittore di romanzi gialli, per esempio Raymond Chandler, indica le sue ‘regole per scrivere un giallo’, contraddice quelle degli scrittori precedenti e viene a sua volta contraddetto subito dopo. Secondo me non si tratta tanto di regole quando di una grammatica, di un respiro. È come suonare il jazz: un’improvvisazione che è comunque definita e diversa da altri generi musicali. Si tratta di come si raccontano, le cose: raccontiamo storie strane, inquietanti e non le sveliamo subito, portiamo avanti un mistero che viene rivelato a poco a poco. Questa credo sia l’unica regola: costruire un mistero che sia interessante e con una struttura che funziona. Per il resto è tutta una questione di atmosfera. Il nostro scopo è quello di stupire il lettore: non fargli capire cosa sta succedendo e poi farlo saltare sulla sedia. E per farlo non possiamo avere delle regole da seguire”.

È un grande gioco di tensione, insomma.
“La regola del giallo classico era: solo alla fine si scopre l’assassino. Anzi: il lettore deve avere tutti gli elementi per scoprirlo a metà, ma siccome lo scrittore è più bravo non lo capisce fino alla fine. Adesso non è più così, perché la domanda del noir è: ‘cosa succede adesso?’. In Bell’abissina fino a metà la domanda è: ‘chi è stato?’ E da metà in poi diventa: ‘e adesso come ne usciamo?’ L’importante, insomma, è che all’interno della storia esista una grande domanda”.

In Bell’abissina racconta delle morti femminili. Ha da poco partecipato a un convegno su violenza e maschile ed è Presidente della Fondazione Emiliano-Romagnola per le vittime dei reati gravi. In che modo l’aspetto di questo specifico tipo di violenza rientra nella sua letteratura?
“Dal 2017 sono Presidente della Fondazione: ci occupiamo di reati gravi, quindi in teoria di tutti i reati che vanno dalla rapina all’omicidio. Da due anni a questa parte, il 99% dei casi riguardano però violenze sulle donne e sui minori. È molto raro, ormai, che le vittime dei casi di cui ci occupiamo siano uomini: l’ultima volta che, con gli altri membri della Fondazione, ci siamo incontrati, abbiamo lavorato su quattro femminicidi. Certo, adesso ho una consapevolezza maggiore, però non inserisco nei romanzi questo tipo di situazioni a partire da un’esperienza personale. Le inserisco perché, di fatto, è quello che succede. In Bell’abissina volevo raccontare un caso che c’entrasse soprattutto con il razzismo e da lì sono derivate delle vittime donne. Un po’ perché è quello che ci racconta la letteratura sui serial killer, un po’ perché, semplicemente, è come si è venuta a creare la storia”. 

Ha ormai scritto oltre venti romanzi: cosa ha capito il Lucarelli scrittore di lungo corso che invece il Lucarelli esordiente non sapeva?
“Tantissime cose: quello dello scrittore è un lavoro in evoluzione. Stilisticamente ho capito che si aprono strade infinite, che si può attingere da tutti i generi e da tutti gli strumenti con i quali ci si confronta. Per esempio, ho scritto Lupo mannaro nel periodo in cui lavoravo a soggetti per videoclip musicali, che sono dei testi molto ridotti, in cui si riporta in maniera sincopata quello che deve accadere dentro il videoclip. Per cui ho utilizzato quello stesso stile: frasi brevissime e inquadrature sincopate. E poi ho capito il rapporto con i personaggi…”.

Cioè?
“All’inizio pensi di scrivere di qualcuno che conosci, invece poi ti rendi conto che la cosa migliore è la scoperta del nuovo e impari a prendere strade completamente diverse da quelle che immaginavi. Quando ho cominciato a scrivere, pensavo che avrei fatto una serie di romanzi con protagonista De Luca che, anno dopo anno, raccontavano la storia d’Italia. Senza aggettivi e senza avverbi, perché all’inizio De Luca compiva gesti e azioni senza avverbi che le spiegassero. Dopo ho scoperto che, invece, se vuoi raccontare un altro mondo, devi aprirti ai sensi, come ho fatto in seguito con Almost blue”.

Quali sono gli scrittori che per lei sono stati fondamentali ieri e quelli che invece lo sono oggi?
“Tra gli scrittori di ieri, il primo è Giorgio Scerbanenco. Prima di lui avevo letto tanti altri autori gialli, perché mia madre mi faceva leggere un sacco di libri, ma lui è stato il primo a farmi pensare: ‘Mi piacerebbe fare così’. Poi, sempre da ragazzino, sono arrivati Raymond Chandler e Dashiell Emmett: avevo comprato un Omnibus, di quelli curati da Oreste Del Buono, che si intitolava La scuola dei duri e dentro c’erano tutti gli scrittori americani di quegli anni. Poi è arrivato James Ellroy e ho capito che si può scrivere anche di persone cattive e di uomini persi. E poi piano piano sono entrati nel mio radar un sacco di altri scrittori, anche italiani ovviamente, come Augusto De Angelis, o francesi. Di italiani contemporanei, invece: tutti. Perché tra di noi ci scambiamo i libri in continuazione e, soprattutto, parliamo e ci confrontiamo sempre. Parlo per esempio di Marcello Fois, Davide Longo, Pulixi, Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Giampiero Rigosi. Tutti loro insomma”.

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