L’invisibile devi vederlo, altrimenti quasi non ci fai caso.
Devi inciamparci dentro, nell’invisibile, altrimenti pensi sia un colpo di vento, qualcosa di estraneo che non ti appartiene. E io l’invisibile l’ho incontrato un martedì, al margine di un caffè.
Insomma, ecco come è andata: è martedì, sono al bar, bevo un caffè. E quando finisco appoggio la tazzina sul bancone e prendo un tovagliolo. Di carta. Del bar. Che non è carta bella, quella, è un rettangolo di carta stupida che sembra plastica, è un paradossale tovagliolo impermeabile, non so se avete presente. E col tovagliolo, invece di compiere quel gesto inutile di asciugarmi le labbra (perché quei tovaglioli lì non asciugano un bel niente): scrivo. Ci scrivo su. Un appunto, una frasetta. Una cosa sciocca che mi è venuta in mente lì per lì. Scrivo: “Elenco delle cose invisibili che ci tengono vivi”.
E sotto, sempre sul tovagliolo, a penna, con la Bic blu, comincio l’elenco: l’elenco delle cose invisibili che ci tengono vivi. E resto senza fiato. Perché scrivo: ossigeno, aria, acqua luce (che è invisibile quando è troppa, invisibile quando è troppo poca e invisibile pure quando è giusta), caldo, freddo, musica, voce, infanzia, amore, idee, tempo… fedeltà.
Un altro caffè. Questo non lo scrivo, lo chiedo al barista, ma non per il caffè, a dire il vero, per poter prendere un altro tovagliolo.
Perché di colpo mi accorgo che la lista delle cose invisibili che ci tengono vivi, è lunghissima… Pensateci. Sì, sì, pensateci. Pensateci con calma perché è una cosa da perderci la testa, pensateci un po’ e poi tornate qui quando vi siete fatti un’idea di quante possono essere le cose invisibili che ci tengono vivi. Compresi i nostri organi interni, che quelli sì che ci tengono vivi, ma solo se sono invisibili, perché se li vediamo… .
Fatto? Ci avete ragionato? Ripartiamo.
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Insomma riempio di appunti cinque tovaglioli, tutti stesi di fronte a me, sul bancone, e poi al bar cominciano a guardarmi strano.
E hanno ragione. Così pago, lascio pure la mancia per il disastro che ho fatto, accartoccio i tovaglioli e me li metto in tasca. L’idea non è mia. A questo punto, bisogna ammetterlo, il colpo di genio viene al barista, è lui che mi indica il punto in cui inizia l’invisibile.
Dice: “Non erano brutti, sa? Sembravano una mappa. Una mappa del tesoro”.
Santo cielo! Lo guardo. Vorrei baciarlo! Una mappa! Riapro tutti e cinque i foglietti che avevo accartocciato.
Ecco che cos’era quella che avevo sotto gli occhi: era una mappa di strade invisibili, un Atlante con tutte le radici invisibili che ci tengono vivi, un atlante dell’invisibile.
Era l’inizio della mia storia: provare a raccontare le cose invisibili che ci tengono vivi.
Quasi non ci credo.
Un anno e mezzo fa ho scritto un libro, La Locanda dell’Ultima Solitudine, e alla fine ero così felice – profondamente felice – che pensavo non avrei scritto mai più nulla. Pensavo sarei tornato a fare quello che ogni lettore è chiamato a fare per far parte della grande famiglia delle storie: leggere. E poi è arrivato quel martedì, quel caffè, quel tovagliolo di carta plasticata.
Ed ecco la storia.
Perché nell’invisibile convivono fantasmi e fantasie. Perché l’invisibile devi vederlo, altrimenti quasi non ci fai caso: al fatto che sia lui a tenerci vivi.
Proprio come fanno le storie.
L’AUTORE – Alessandro Barbaglia è un giovane poeta e libraio che vive a Novara. Il romanzo La locanda dell’ultima solitudine (Mondadori, 2017) è stato il suo primo libro pubblicato da un grande editore: una scrittura lieve e poetica, tra giochi linguistici, pennellate surreali e tenerezza, con cui l’autore ci racconta una storia d’amore.
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Sempre Mondadori porta ora in libreria L’atlante dell’invisibile, il suo nuovo romanzo. Ismaele, Dino e Sofia hanno quarantadue anni in tre quando nel 1989, durante una sera di fine estate, rapiscono la luna in segno di protesta. Vivono a Santa Giustina, un lontanissimo paese fatto di baite di legno ai piedi delle Dolomiti, che sta per essere sommerso da un lago artificiale portandosi dietro tutti i loro ricordi, le gare con le lumache, il prato del castagno, i primi baci. Il progetto della diga risale al 1946. Ai tempi, gli abitanti di Santa Giustina non accettarono di abbandonare le loro case per trasferirsi al “paese nuovo” e rinunciarono ai benefici promessi nel caso di una resa immediata. Si avvicina però il momento dell’esproprio definitivo. Proprio negli anni Quaranta si sono conosciuti Elio e Teresa, e precisamente il 19 marzo 1946, in un bar Sport gremito di una folla accalcata per seguire la cronaca radiofonica della prima Milano-Sanremo del dopoguerra. Senza essersi mai visti né incontrati, Elio e Teresa – ormai anziani e da sempre innamorati l’uno dell’altra e del loro paese vicino a Milano – e i quattordicenni Dino, Ismaele e Sofia sono tormentati dalle stesse domande: “dove vanno a finire le cose infinite?”, “dove si nascondono l’infanzia, l’amore o il dolore quando di colpo svaniscono?”.
E se Elio, per rispondere, costruisce mappamondi dalle geografie tutte inventate e sbagliate – descrivendo così la terra magica dove abita l’invisibile e costringendo Teresa a correggere tutto con puntiglioso realismo -, i bimbi di Santa Giustina via via che crescono si allenano a non smettere di scorgere l’invisibile tra le pieghe del reale e a conservarlo a modo loro, in una sorta di gioco segreto. In una danza fatta di immaginazione, ricordo ed elaborazione del lutto, Teresa incontrerà i bambini diventati adulti nella notte più incredibile delle loro vite: quella durante la quale, per pochi istanti di eternità, riemergerà il paese sommerso di Santa Giustina. E con lui l’amore, il dolore, l’infanzia…