“Vale la pena di raccontarsi senza paura. Non solo a uno sconosciuto…”. Su ilLibraio.it un racconto-riflessione dello sceneggiatore Salvatore Basile, che a maggio sarà in libreria con il suo primo romanzo, “Lo strano viaggio di un oggetto smarrito”

“Lei è di Napoli, vero?”

Sollevo lo sguardo, sorpreso. Il mio interlocutore è seduto di fronte a me, sul sedile di un vagone della metropolitana che conduce a Ostia Lido.  Avrà la mia stessa età, anno più anno meno, e un pronunciato strabismo bilaterale che mi mette subito in imbarazzo: la disparità di fissazione non mi aiuta a capire a quale dei due occhi debba far riferimento per inquadrare il suo sguardo. Però è vero, vivo a Roma da moltissimi anni ma sono napoletano persino nei capillari. Gli sorrido, incuriosito: “Come ha fatto a capirlo?”

L’uomo sorride a sua volta e, mentre sembra fissare contemporaneamente il paesaggio notturno dal finestrino e il posto vuoto alla mia destra, mi dice di averlo capito mentre mi avviavo a salire sul convoglio.

“Era l’ultima corsa ” – mi dice – ” la metro stava per partire… eppure lei camminava come se avesse avuto tutto il tempo a disposizione. Camminava, mentre gli altri correvano, preoccupati di non fare in tempo.”

Annuisco e gli chiedo: “Sì, ma cosa c’entra questa cosa con Napoli?” E mentre attendo la risposta mi auguro che il mio interlocutore non cominci con la solita storia scontata della flemma partenopea.

Invece lui mi sorprende: “E’ che il mare di Napoli ci entra dentro più di quanto immaginiamo. Il passo è diverso, non camminiamo mai diritto. Seguiamo sempre una costa immaginaria… lei camminava sulla banchina, però seguiva la costa… ho visto che si scansava ogni tanto, come quando arriva l’onda.”

Ora lo fisso a bocca aperta. E’ vero, non riesco a camminare diritto, me l’hanno fatto notare molte volte. Ma non avevo mai associato questa cosa con il mare della mia città.

Ci presentiamo. Arturo – questo è il suo nome – è un mio concittadino e, come me, vive a Roma da moltissimi anni. Nei minuti successivi, mi racconta brevemente la sua vita, poi si interrompe.

D’improvviso, riesco a captare il suo sguardo. Nonostante lo strabismo sembra aver piantato i suoi occhi nei miei: “Mia moglie ha pochi mesi di vita. E ho scoperto di essere egoista, perché vorrei andarmene prima di lei, per evitarmi il dolore.”

Sono ancora una volta sorpreso e senza parole. Lui si scusa: è la prima volta che trova il coraggio di parlarne. “E non so per quale motivo lo sto dicendo a lei…” – aggiunge – “Ma so che avevo bisogno di dirlo…”

Sono trascorsi due anni, da quella sera.  La moglie di Arturo, col quale sono ancora in contatto, ha contraddetto le previsioni dei medici e sta combattendo eroicamente contro la sua malattia, con la speranza di vincere.

La scena che vi ho appena raccontato rappresenta una situazione che molte volte si è presentata nella vita di ognuno: trovarsi all’improvviso a confidarsi con uno sconosciuto.

È  come se ci trovassimo alla presenza di qualcuno che sembra attendere le nostre confidenze più intime. Glielo leggiamo negli occhi e quel calore, quel senso di abbandono che proviamo non sono altro che un segnale: è arrivato il momento di rispondere a una richiesta che proviene dal nostro interno.  Il momento di appagare alcuni bisogni fondamentali.

Il primo è la catarsi.

Sin da piccoli, ci arrivano messaggi dai nostri genitori e dal mondo degli adulti: “non fare capricci“; “non interrompere quando parlano mamma e papà“; “non gridare.” Sono messaggi all’apparenza normali e, come sappiamo, sono anche necessari per impartire un’educazione di base. Ma a lungo andare, questi messaggi si sedimentano nel profondo, ci frenano dandoci la sensazione che dentro di noi ci sia qualcosa di sbagliato e, di conseguenza, di “non mostrabile”.

Senza rendercene conto, blocchiamo le nostre emozioni, le ricacciamo nel silenzio e otteniamo in cambio la sensazione di essere accettati.

Riempiamo, dentro di noi, una “cantina” di segreti che crediamo inconfessabili, di frasi non dette, di domande mai formulate, di spontaneità. Perfino la gioia, a volte, viene repressa, così come il dolore.

Col tempo, la parte più vera del nostro essere si ricopre di polvere e ragnatele e, con essa, quel senso di regalità di cui abbiamo bisogno per non aver paura di mostrare ciò che siamo davvero.

Confidarsi con una persona sconosciuta non è altro che il bisogno di togliere quella polvere e quelle ragnatele, svuotare la cantina e sentirci, finalmente, accettati per ciò che siamo e che proviamo davvero.

La catarsi è compiuta.

Cosa dovremmo pensare, allora? Che confidarsi con uno sconosciuto è solo un bisogno indipendente da chi ci troviamo di fronte?

Forse non è così. O almeno, non solo così.

Il secondo bisogno che tutti sentiamo è, infatti… fidarsi di qualcuno. Lasciarsi andare e attribuire alla persona che ci è di fronte un connotato famigliare.

Ma perché proprio quella persona? In quale modo “riconosciamo” chi ci è di fronte e decidiamo di aprirci?

Un antico detto napoletano recita che “siamo tutti sotto lo stesso cielo e quindi tutti ci apparteniamo”. E’ una teoria che vanta molti autorevoli riscontri.

Tanto per fare un esempio, Carl Gustav Jung teorizzava l’esistenza di un “inconscio collettivo”: un contenitore universale di emozioni e vissuti, di esperienze, ricordi, paure, desideri che tutti condividiamo alla stessa maniera e che abbiamo in comune con i nostri avi.

All’interno di questo contenitore, “riconoscersi” è un fatto quasi logico, inevitabile.  Come se lo sconosciuto o la sconosciuta che abbiamo di fronte mentre siamo in treno, su una panchina del parco, seduti al bancone di un bar, possedesse già il ricordo di ciò che abbiamo vissuto, le speranze che coltiviamo e facesse parte della nostra vita da sempre.

Oltre a ciò, lo sconosciuto o la sconosciuta ci garantiscono una sorta di anonimato. Non li rivedremo più (per Arturo e il sottoscritto non è stato così) e, anche se dovessero giudicarci in maniera negativa, quel giudizio non avrà spiacevoli strascichi nel prosieguo della nostra vita.

Però… però c’è sempre una sorta di magia che si nasconde dietro certi incontri, come se fosse il destino a favorirli, come se una forza misteriosa ci avesse condotti proprio lì, in quel treno, su quella panchina o in quel bar, in quel determinato momento. Ed è la stessa forza misteriosa che ci spinge, di giorno in giorno, a sperare che esista, da qualche parte nel mondo, una persona in grado di capirci più di ogni altra.

Quando avevo 9 anni, vedevo spesso, di sfuggita, una mia coetanea che abitava sul mio stesso pianerottolo. Era una bambina timida, a tratti scontrosa. Se cercavo di attaccare discorso, rispondeva a monosillabi, quasi a disagio, poi andava via, lo sguardo basso e l’aria concentrata sui suoi pensieri. Ero convinto che fosse un tipo poco socievole, la ritenevo scontrosa e anche un po’ altezzosa.

Ricordo che un giorno la vidi dalla finestra della mia camera. Era da sola, nel cortile condominiale, e parlava con qualcuno che non riuscivo a vedere. Parlava a raffica, sorrideva e rideva. Ero curioso di capire chi fosse il suo interlocutore, come riuscisse a farla chiacchierare in maniera così disinvolta, come se fosse la cosa più naturale al mondo.

Così arrivai nel cortile e mi fermai, sorpreso. Giusy – questo era il nome della bambina – stava parlando con una siepe di alloro! Mi avvicinai lentamente, mentre lei continuava a parlare: raccontava di una vacanza che avrebbe fatto quell’estate, dell’intenzione di imparare a nuotare sott’acqua per vedere i pesci colorati, del sogno di diventare un’esploratrice subacquea. Quando si accorse della mia presenza, Giusy si interruppe e arrossì, a disagio. Ero anch’io imbarazzato, non sapevo cosa fare.  Alla fine riuscii a sorridere e a chiederle: “Ma che fai, parli da sola?”

Lei abbassò per un attimo lo sguardo, poi ammise, in un sussurro: “Stavo parlando con… una mia amica”. Mi guardai intorno: a parte la siepe, il cortile era deserto. E fu così che Giusy mi presentò la sua amica immaginaria: Margherita. L’unica persona di cui si fidasse, l’unica che la facesse sentire a proprio agio. Scherzando, mi presentai a Margherita, tendendo la mano verso il nulla. E Giusy sorrise.

Da quel giorno diventammo amici. E anche Margherita lo diventò.

L’amico immaginario non è altro che la rappresentazione di una speranza: essere accettati senza riserve ed essere capiti.

E forse è proprio questa figura che immaginiamo quando siamo spinti a confidarci con uno sconosciuto in un determinato momento della nostra vita.

In un meraviglioso film degli anni ’50, James Stewart impersona Elwood P. Down, un serafico uomo che si accompagna  a un amico immaginario: Harvey, un enorme coniglio bianco.  (“Harvey” è anche il titolo del film).

Il coniglio raccoglie le confidenze di Elwood che, di conseguenza, riesce a vedere la vita sotto un aspetto romantico e incantato.

Quando i due entrano in un bar, dopo poco tempo le persone fanno a gara per sedersi al loro tavolino e ascoltare i loro discorsi.

È lo stesso Elwood a raccontarlo:

“Harvey e io ci sentiamo come riscaldati, in quei momenti. Siamo entrati come estranei e ci ritroviamo fra amici. Ci vengono vicino, si siedono… beviamo insieme e parlano con noi. Ci raccontano delle immense, terribili cose che hanno fatto, delle immense stupende cose che faranno: le speranze, i rimpianti, gli amori… le avversioni.

Tutto immenso.

Perché nessun uomo porta mai niente di piccolo in un bar.”

E se nessuno porta mai niente di piccolo con sé, forse è perché siamo davvero tutti sotto lo stesso cielo. E allora vale la pena di raccontarsi senza paura. Non solo a uno sconosciuto.

L’AUTORE E IL LIBRO – A maggio sarà in libreria Lo strano viaggio di un oggetto smarrito (Garzanti), romanzo d’esordio dello sceneggiatore Salvatore Basile, figura di riferimento nel panorama culturale italiano: attualmente sta lavorando a due serie tv tratte dai romanzi di Maurizio De Giovanni e Chiara Gamberale, oltre ad essere lo sceneggiatore di una delle fiction italiane più seguite: Don Matteo.


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