Era il 2011 quando un processo rivelò che in Bolivia, in una remota colonia mennonita chiamata colonia di Manitoba, più di 130 donne erano state ripetutamente anestetizzate e abusate nelle loro stesse case. La scrittrice Miriam Toews, cresciuta anche lei in una comunità mennonita, ha scritto un libro su questo evento, “Donne che parlano”, in cui racconta la storia di otto donne (più un uomo) che si incontrano per decidere come comportarsi di fronte alla violenza subita: vendicarsi o perdonare? – L’approfondimento

Narcotizzate con uno spray per sedare le mucche e stuprate nel sonno. Era il 2011 quando un processo rivelò che in Bolivia, in una remota colonia mennonita chiamata colonia di Manitoba – dal nome della provincia canadese – più di 130 donne erano state ripetutamente anestetizzate e abusate nelle loro stesse case.

“Dal 2005, quasi ogni ragazza o donna è stata stuprata da quelli che nella colonia molti credevano essere fantasmi, o Satana, presumibilmente quale punizione per i loro peccati. Le violenze avevano luogo di notte. Mentre le famiglie dormivano, le ragazze e le donne venivano rese incoscienti con uno spray anestetico che si usa per il bestiame, ricavato dalla pianta di belladonna. L’indomani si svegliavano doloranti, stordite e spesso sanguinanti, e non capivano il perché. Ultimamente è venuto fuori che gli otto demoni responsabili degli stupri erano uomini di Molotschna in carne e ossa, parecchi dei quali sono parenti stretti – fratelli, cugini,zii, nipoti – delle vittime”.

I media parlarono dell’evento con un termine ambiguo: “ghost rapes“, che non faceva altro che negare la vera natura di quelle azioni. Potevano essere stati i fantasmi, i demoni, delle creature misteriose. Ma non gli uomini, gli uomini no. Lo racconta Miriam Toews, spiegando al Guardian la genesi del suo ultimo romanzo Donne che parlano (Marcos y Marcos, traduzione di Maurizia Balmelli).

donne che parlano

La scrittrice aveva già iniziato a pensare al libro, quando sua sorella Marjorie si suicidò sui binari della ferrovia a Steinbach dove suo padre, Melvin, aveva fatto lo stesso dodici anni prima. La storia della Bolivia era stata accantonata perché Toews sentiva il bisogno di dare voce a un’altra sofferenza: è stato pubblicato nel 2014 I miei piccoli dispiaceri (Marcos y Marcos, traduzione di Maurizia Balmelli), un tragicomico romanzo che racconta il rapporto tra due sorelle, la spiritosa e irresistibile Elfrieda (Elf) e la goffa e incasinata Yolandi (Yoli). Nella narrazione i riferimenti alla vita reale dell’autrice sono evidenti: Elf, proprio come Marjorie, è una pianista di successo ma, nonostante la bellezza e il talento, è terrorizzata dall’idea di avere dentro di sé un pianoforte di vetro che potrebbe frantumarsi da un momento all’altro. Vuole morire, e Yoli non può fare altro che starle vicino, tentare di salvarla, appoggiarla anche se questo vuol dire accompagnarla in una clinica Svizzera dove praticano l’eutanasia assistita. Acclamato dalla critica negli Stati Uniti e in Canada, vincitore e finalista dei più prestigiosi premi letterari, in Italia I miei piccoli dispiaceri ha vinto il premio Simbad 2015.

A distanza di quattro anni, Toews torna su quell’evento che l’aveva colpita tempo prima e si dedica alla scrittura di un romanzo inquietante (per l’argomento trattato), ma allo stesso tempo lieve (per lo stile con cui la scrittrice lo affronta). Donne che parlano ricorda le distopie a cui siamo abituati in questo periodo, da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, a Ragazze elettriche di Naomi Alderman, fino al recente Vox di Christina DalcherInfatti la stessa Atwood ha twittato che la storia sarebbe potuta uscire da uno dei suoi romanzi.

Il libro si inserisce inevitabilmente nell’attuale conversazione sulle violenze sessuali e gli abusi di potere subiti dalle donne. Sempre sul Guardian è stato riportato l’hastagh #MennoniteMeToo, facendo riferimento al fatto che la scrittrice, nell’intervista, ha dichiarato di sentirsi particolarmente coinvolta dalla vicenda, visto che anche lei, come le donne del romanzo, è cresciuta in una comunità mennonita, a qualche miglio da Winnipeg, in Canada, da dove è scappata a diciott’anni, il giorno dopo il diploma di scuola superiore (da questo trae spunto un altro dei suoi romanzi, Un complicato atto d’amore, sempre pubblicato da Marcos y Marcos).

Donne che parlano racconta una storia di violenza, eppure si apre con un’immagine che non ha nulla a che fare con lo stupro e che rimane impressa nella mente del lettore. Le donne hanno deciso di riunirsi per decidere come reagire di fronte alle azioni degli uomini ma, prima di iniziare il confronto, si lavano a vicenda i piedi: un atto simbolico, di comunione e solidarietà, che rappresenta la volontà di mettersi al servizio l’una dell’altra, “proprio come Gesù ha lavato i piedi dei suoi discepoli nell’Ultima Cena”.

La trama si svolge in 48 ore. Il tempo in cui gli uomini della comunità vanno in città per il caso giudiziario e le donne hanno la libertà di parlare tra loro. Hanno due giorni fino al ritorno degli uomini. Si incontrano in una stalla – il tavolo consiste in alcune balle di fieno sormontate da un pezzo di compensato, le sedie sono secchi da mungitura –  e discutono. Queste donne – donne che non sanno scrivere, donne che vengono paragonate a bestie e trattate come tali – hanno un’unica arma contro le violenze subite dagli uomini: parlare. Infatti “la domanda più importante da porsi non è tanto se le donne siano bestie, ma piuttosto se le donne debbano vendicarsi del male subito. O dovrebbero invece perdonare gli uomini?“. È questa la priorità: devono prima emanciparsi e poi capire chi sono.

“Le opzioni erano tre.

  1. Non fare niente.
  2. Restare e combattere.
  3. Andarsene.

Ogni opzione era corredata da una figura, perché le donne non sanno leggere […]. ‘Non fare niente’ era corredata da un orizzonte vuoto. ‘Restare e combattere’ era corredata dal disegno di due membri della colonia che si affrontavano in un duello sanguinoso. Quanto all’opzione ‘Andarsene’, era corredata dal disegno del sedere di un cavallo”.

L’autrice riesce a delineare otto voci distinte che rappresentano le donne della comunità, più una: quella del narratore, August Epp. “Il mio cognome, Epp, deriva da pioppo, il pioppo tremulo, l’albero dalle foglie che tremano, l’albero che a volte chiamano ‘lingua di donna’, perché le sue foglie si muovono di continuo”. August è l’unico uomo, ma anche lui è un emarginato e per questo può allearsi con le donne. Ha vissuto lontano dalla colonia, ha studiato, sa leggere e scrivere, quindi può aiutarle a stendere un verbale delle loro riunioni. In particolare, August vuole aiutare Ona, una donna di mezza età, saggia e coraggiosa, non sposata e ingravidata da uno stupratore, “perché per Ona Friesen farei qualsiasi cosa”.

La storia d’amore tra August e Ona è fatta di gesti mancati e lunghi silenzi, di gonne che si gonfiano al vento e che sfiorano le gambe, di incomprensioni e di distanze che non possono essere colmate. “Ona mi ha raggiunto e guarda oltre la mia spalla. Ci appoggerà la mano? Mi guarda mentre scrivo. La penna mi trema tra le mani. Non sa leggere; potrei scrivere: Ona, la mia anima ti appartiene, e lei non lo saprebbe“. La loro linea narrativa è necessaria, perché, mostrando un’immagine tenera del rapporto uomo – donna, incarna un contro altare significativo rispetto all’evento principale.

Un altro degli aspetti interessanti del romanzo è la rappresentazione della comunità come luogo isolato: “Una parte del mondo che era stata fondata per essere il mondo di se stessa, separata dal mondo”. È l’isolamento, fisico e culturale, che mette in pericolo gli uomini, perché li espone all’ignoranza, alla paura e alla superstizione. “Pianta degli uomini in mezzo al nulla, confinali, abusa di loro, sospendili in un limbo, ed ecco cosa ottieni“.

È l’assenza di confronto a generare mostri, a togliere umanità alle persone. E in un contesto in cui domina violenza, l’atto più rivoluzionario, sembra dirci l’autrice, è prendere parola.

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