“Nessuno di noi è comune, se per comune intendiamo l’opposto di eccezionale. Ciascuno è eccezionale, perché ciascuno conosce a suo modo l’amore e la sofferenza, il bene e il male, e tutti sfioriamo il mistero che ogni esistenza racchiude…”. Su ilLibraio.it un sentito intervento autobiografico di Elena Varvello, scrittrice e poetessa, in libreria con il romanzo “La vita felice”

In uno dei rari momenti di quiete nelle tempeste del bipolarismo, mio padre mi ha detto una cosa.  Non gli restava molto da vivere. Era seduto sul bordo del letto, in penombra. Era in pigiama e fumava. Non mi ha nemmeno guardata negli occhi. Ha detto: “Sai che cos’è che mi spiace di più? Il fatto che nessuno racconterà mai la mia storia”. Immagino volesse dire: “Una vita come la mia è destinata al silenzio. Non interessa a nessuno”.

Ci sono istanti che cambiano tutto: quella frase, pronunciata da un uomo esausto, seduto sul bordo di un letto in una stanza in penombra, l’ha fatto.

Era mio padre, d’accordo, però non è solo questo.

È che mi ha detto qualcosa che aveva a che fare con me, con la ragione che mi spinge a leggere quello che leggo e a scrivere quello che scrivo. Non lo sapevo, prima di allora. Credo di averlo sentito fin dal principio, molti anni fa, eppure non era mai stato un pensiero distinto, limpido e chiaro.

In seguito ho scoperto Stoner e la trilogia di Kent HarufBenedizione, Canto della pianura e Crepuscolo – ed ecco di nuovo mio padre e il suo rammarico: “Sai che cos’è che mi spiace di più?”.

Ecco la gente comune, ho pensato – non è così che si dice? – persone di cui potremmo scommettere non valga la pena di raccontare la storia. In fondo, cosa hanno fatto di tanto speciale? Proprio un bel niente. Vite qualunque, apparse e svanite in un soffio. Nessun prodigio, nulla che lasci un’impronta se non sulle vite più prossime, e poi il silenzio.

Solo che io non la vedo così, da quel giorno. Forse, come dicevo, non l’ho mai vista in quel modo.

Nessuna vita è qualunque, per me, ormai non più. Nessuno di noi è comune, se per comune intendiamo l’opposto di eccezionale. Ciascuno è eccezionale, perché ciascuno conosce a suo modo l’amore e la sofferenza, il bene e il male, e tutti sfioriamo il mistero che ogni esistenza racchiude.

Quel che la cronaca non ci segnala, quello che non trova posto in un articolo su un quotidiano o un settimanale o sullo schermo di un televisore, è ciò che dovremmo guardare a fondo. Guardare e provare a capire. Che sia un professore di letteratura in una piccola università di provincia o un uomo morente alle prese coi propri fantasmi nelle pianure remote degli Stati Uniti oppure due anziani fratelli che accolgono una ragazzina che aspetta un bambino. Un padre stanco e malato, seduto sul bordo di un letto, in Italia.

Non si tratta di postare un pensiero su Facebook o pubblicare una foto su Instagram. Non si tratta di Twitter, 140 caratteri e basta. Va tutto bene, è il nostro mondo e corre veloce e corriamo anche noi, ma non sto parlando di questo.

Si tratta di andare laggiù, in profondità, fermando il tempo per sempre: possiamo farlo solo leggendo o scrivendo una storia.

Non mi ricordo, lo ammetto, quel che ho risposto a mio padre: non era l’unico a essere esausto. Può darsi che avessi bisogno di prendere aria e sia uscita, scappata. Spero che, dovunque sia, abbia capito che è questo il mio grande rammarico. È stato allora, però, che ho incominciato a sentire con più intensità il senso del mio stare al mondo, e lo vorrei ringraziare.

Leggiamo e scriviamo per tante ragioni, e molte rimangono oscure persino a noi stessi. Adesso una mi è chiara. È quello che tento di fare ogni giorno: riavvolgere il nastro, tornare dentro alla stanza in penombra, sedermi accanto a mio padre, guardarlo negli occhi e poi dirgli: “Non preoccuparti. Non è così”. Non smetterò di provarci, questo è sicuro.

Anche per questo, se ancora non è successo, leggete Stoner, leggete i romanzi di Haruf.

Stanno parlando di noi: mai stati gente comune, per quanto ne so.

elena varvello

L’AUTRICE – Elena Varvello è nata a Torino nel 1971: ha pubblicato le raccolte di poesie Perseveranza è salutare (Portofranco, 2002) e Atlanti (Canopo, 2004). Con i racconti L’economia delle cose (Fandango, 2007) ha vinto il Premio Settembrini, è stata selezionata dal Premio Strega e nel 2008 ha vinto il Premio Bagutta Opera prima. Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo, La luce perfetta del giorno (Fandango).

Con il suo nuovo romanzo, La vita felice (Einaudi), ha scritto una storia di formazione sulle colpe dei padri e l’innocenza dei figli: Elia ha sedici anni ed è un ragazzo solitario. Suo padre è stato licenziato e ha cominciato a comportarsi in modo strano, sparendo per ore a bordo di un furgone, chiudendosi in garage, scrivendo lettere che denunciano un complotto di cui si sente vittima. Elia prova a decifrare ciò che accade, mentre sua madre sembra non voler vedere. Fino alla notte d’agosto dopo la quale nulla sarà piú come prima: la piccola comunità di Ponte – già segnata dall’omicidio insoluto di un bambino – si sveglia sconvolta per il rapimento di una ragazza, salita la sera precedente su un furgone e poi svanita in mezzo ai boschi. Ma quell’estate per Elia è anche segnata dall’attrazione per Anna Trabuio, dall’amicizia per suo figlio Stefano, dalla scoperta lacerante dei propri desideri e dell’istinto di sopravvivenza. A raccontare tutto questo è Elia trent’anni dopo: un uomo che tenta di ricucire lo strappo del passato e illuminare il buio nella mente di suo padre, immaginando cosa sia accaduto davvero quella notte, e cosa significhi perdere se stessi. Ma soprattutto tenta di rispondere a una domanda: com’è possibile, dopo una ferita cosí profonda, sperare di essere felici?

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