Gianni Simoni, ex magistrato e apprezzato giallista, regala ai suoi lettori un intenso racconto dedicato a una delle sue passioni, i funghi…

Gianni Simoni, ex magistrato, ha condotto quale giudice istruttore indagini in materia di criminalità organizzata, di eversione nera e di terrorismo. Presso la Procura generale milanese ha sostenuto l’accusa nel processo d’appello per l’omicidio Ambrosoli e ha condotto l’inchiesta giudiziaria sulla morte di Michele Sindona nel carcere di Voghera. A questo proposito, per Garzanti ha pubblicato “Il caffè di Sindona”, in collaborazione con Giuliano Turone. 
 
Simoni è anche un apprezzato giallista. Tea, infatti, pubblica le sue due serie gialle: la prima è ambientata a Brescia e ha per protagonisti l’ex giudice Petri e il commissario Miceli. La seconda è ambientata a Milano e ha per protagonista l’ispettore Andrea Lucchesi. In attesa dell’uscita del suo nuovo romanzo, “Troppo tardi per la verità” (un nuovo caso di Petri e Miceli, in libreria dal 25 settembre) Simoni in questo intenso racconto parla di una sua grande passione, i funghi (e di amicizia)…
FUNGHI…
di Gianni Simoni

Piove, quasi ogni giorno.

  Piove e la temperatura è bassa, nonostante siamo quasi a metà
luglio.

  “Tempo di galletti”, brontola il mio vicino, il vecchio Angelo che
vive da solo e non ha eredi, salvo alcuni lontani nipoti coi quali ha rapporti sporadici.

  Anni fa, insieme, facevamo intere giornate a funghi, spingendoci fin sul Gottero, una sorta di grande acrocoro in cui le valli sono intersecate da canaloni, spesso colmi d’acqua che scende vorticosamente tra le rocce e i castagni che ne ricoprono le pendici, mentre in alto, prima dei pascoli, ci sono le faggete, che lui conosce palmo a palmo e che sono il regno del porcino.

  E l’Angelo mi aveva svelato i luoghi migliori, quelli più segreti, cosa che non aveva mai fatto con nessuno, se non con me, forse perché ero un estraneo che vive a Milano, ma che come lui aveva sempre amato i boschi e i funghi, che dei boschi sono il prodotto più straordinario e misterioso. E questo mio amore il vecchio l’aveva riconosciuto, limitandosi ad annuire compiaciuto e quei luoghi consegnandomi, come un’eredità preziosa perché la custodissi come un figlio riconoscente, che in qualche modo, dopo la sua scomparsa, lo avrebbe fatto rivivere nella memoria.

  Cose che è riuscito a dirmi, con frasi smozzicate e parole timide, nascondendo in un sorriso della sua faccia rugosa, il groppo che talvolta lo prendeva alla gola.

  “Tempo di galletti, troppa acqua e ancora troppo freddo. Non riescono a maturare neanche i pomodori…”

  “Allora”, gli faccio, “è inutile che ritorni sul Gottero…”, e la mia è quasi una domanda.

  “Certo”, fa lui dopo un momento di silenzio, “si stancherebbe inutilmente e rischierebbe di perdersi, non ne vale la pena. Se si vuole divertire vada nel bosco qui di fronte: è tempo di galletti, ma non speri di trovare porcini.”

  Ci conosciamo da oltre vent’anni e lui continua a darmi del “lei”, chiamandomi dottore e io lo chiamo signor Angelo. Per lui si tratta, pur nell’amicizia che ci lega profondamente, di una questione di reciproco
rispetto. Perché io dottore lo sono veramente e il vecchio Angelo che ormai va per gli ottantacinque e ogni inverno si fa una bronchite che lo lascia per il resto dell’anno con il fiato corto, è davvero un signore. Un uomo anziano che attraversa l’ultimo pezzo della sua vita, senza rimpianti e senza sogni, con la sua innata gentilezza, la sua riservatezza e il suo orgoglio, che gli consentono di dire che con la sua pensione sociale e il suo orto, non gli manca nulla né per sé, né per i suoi gatti, che vivono nella legnaia vicina a casa ed escono solo per salutarlo, strofinandosi contro i suoi pantaloni frusti e qualche volta lasciandosi solo da lui accarezzare.

  Spesso, quando il tempo ce lo consente, ci sediamo insieme sulla panca che sta fuori e ci mettiamo a strologare il tempo e a parlare di funghi. Questi frutti misteriosi, che nascono dal terreno in una notte, riuscendo a spostare la terra dura e a smuovere le radici e le pietre. L’Angelo dei funghi sa tutto, ma, mi confessa, non è mai riuscito a capire se affiorino dalla terra lentamente o sboccino invece miracolosamente, all’improvviso. E una volta mi ha anche fatto parte del suo sogno segreto: quello di assistere alla nascita di un fungo, aggiungendo che sa bene che si tratta di un sogno irrealizzabile perché la sua convinzione è che un fungo nasce solo lontano dagli occhi umani.

 

  Questa mattina mi sono svegliato presto. Mi accade spesso quando non
c’è Anna.

  Ho spalancato le imposte. Nel cielo corrono le nuvole, ma c’è anche
qualche squarcio di sereno.

  Scendo in cucina e mi faccio la mia tazza di latte e poi un caffè. Tolgo dall’armadio gli scarponi e indosso sopra la camicia felpata una cerata
leggera.

  Il cesto e il bastone sono fuori, sotto la tettoia: stanno sempre lì.

  Mi avvio, scendendo il sentiero sassoso per raggiungere il ponticello che è la porta del bosco, quello che ho di fronte, e inizio a inerpicarmi fino ad arrivare a mezza costa. Mi muovo avanti e indietro, lentamente, come l’Angelo mi ha sempre raccomandato.

  Anche questa volta aveva visto giusto. Nell’erba bassa, nel muschio,
infrattati tra l’erica e spesso anche nei tratti ghiaiosi, i galletti,
frastagliati, brillano come piccoli fiori gialli.

  Dopo un paio d’ore il cesto è quasi colmo e il manico di vimini mi
sega il braccio.

    Mi fermo, sedendomi su un masso ancora umido e avvolgo
il manico del cesto con la cerata che faccio scendere fino a ricoprire il mio bottino. Accendo una sigaretta,con la testa sgombra di pensieri, guardandomi attorno e godendo del silenzio del castagneto. Solo qualche trillo, e, di tanto in tanto, il fischio di un falco che volteggia in alto, lasciandosi trasportare dal vento in attesa di piombare come un sasso sulla sua preda.

  Accendo una seconda sigaretta – la prima si è consumata da sola – mi
rimetto il cesto sul braccio, punto a terra il bastone ferrato e faccio alcuni
passi verso l’alto, quando mi blocco, con un tuffo al cuore. No, non posso
sbagliarmi. Quelli che ho di fronte sono tre porcini scuri, con il cappello
chiuso e compatto, di un colore bronzeo, quasi nero. Qui li chiamano
lombardi e nessuno, neppure l’Angelo, ha mai saputo spiegarmene la ragione.

  Adesso sono immobile, come sempre mi accade davanti a un porcino, e
soprattutto a un lombardo, il più affascinante dei boleti.

  Quello di raccoglierli è un rito, che va consumato lentamente, con
consapevolezza, usando il coltello per scalzarli dal terreno, per poi ripulirli, uno per uno dal terriccio, perché le spore non vadano perdute.

  Tolgo il coltello  dalla tasca posteriore dei pantaloni e ne
apro la lama, piano, per non bruciare neppure un attimo dell’attesa.

  Metto il cesto dei gallinacci da un lato e il bastone dall’altro e
poso un ginocchio sul muschio.

  I tre funghi sono nati ai piedi di quello che mi sembra un ceppo,
scuro, tozzo, delle dimensioni di un paracarro mozzato.

  Sto per allungare la mano, col coltello impugnato, quando mi fermo.
Il ceppo pare muoversi appena, quasi un tremolio impercettibile, come accade quando l’aria è calda. Forse la stanchezza, mi dico, quando nel ceppo, a mezza altezza, si allarga una bocca nera, in quello che mi pare un ghigno.

  Mi rimetto in piedi precipitosamente, e faccio un passo indietro. Sento che il cuore ha accelerato i battiti e continuo a fissare il ceppo. La
fenditura, che a me è sembrata una bocca, torna ad allargarsi e poi a
richiudersi, una, due volte.

  Resto immobile per alcuni secondi. Adesso tutto è fermo. Non è una
bestia misteriosa, ma un semplice ceppo di castagno. Un ceppo attraversato da un alito di vita, a guardia dei tre funghi, che si è improvvisamente animato, per allontanarmi.

  Sorrido di me stesso. Nei boschi possono accadere tante cose e ora
posso cogliere i tre lombardi e infilarli nel cesto.

  Poi mi fermo e penso all’Angelo e alle sue certezze.

  Richiudo il coltello e lo infilo in tasca, lasciando i lombardi al
loro posto e coprendoli con alcune manciate di foglie.

  Riprendo la strada di casa e da lontano vedo il vecchio che accanto
alla vigna mi sta aspettando, come fa sempre quando vado nel bosco da solo, nel timore che mi sia accaduto qualcosa o che mi sia perso in quella montagna in cui i sentieri sono ormai scomparsi.

  “Allora, dottore?”, mi fa quando lo raggiungo.

  “Una buona raccolta di galletti, ma di porcini neppure l’ombra, aveva ragione lei.”

  Sorride con aria benevola.

  “Ne ero sicuro. Troppa acqua e la terra è ancora fredda.”

  Sono stanco e ci sediamo sulla panca, a parlare di funghi, scrutando
il cielo che si completamente rasserenato.

  “Qualche giornata di sole e dovrebbero arrivare anche i porcini”,
conclude l’Angelo, e io annuisco.

 

 

 

Fotografia header: Gianni Simoni

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