“Ricordo un insegnamento di Vincenzo Cerami. Quando scrivi tu non puoi commuoverti, emozionarti. Devi riuscire a dare il senso del ricordo di quel sentimento che hai provato. Chiunque scriva sa che parte da una situazione scomoda. Comunque vada, ci sarà qualcosa di mancante, nella sua scrittura. Si tratta di imparare a valorizzare, tecnicamente (che l’avverbio non ci spaventi mai), quell’incompletezza che riguarda la nostra limitata, stordita conoscenza della vita e del mondo nonostante tutti i nostri sforzi”. ilLibraio.it ha intervistato lo scrittore e sceneggiatore (“Non essere cattivo”) Giordano Meacci, tra i 12 semi-finalisti al premio Strega con l’ambizioso “Il Cinghiale che uccise Liberty Valance”: “La lingua è da sempre, per me, la vita di un romanzo…”

Tra i dodici finalisti del Premio Strega di quest’anno, uno si è distinto da subito per l’estrema originalità e la qualità della scelta linguistica, anche se l’autore non mirava a essere sperimentale, ma solo a trovare il linguaggio più adatto: si tratta de Il Cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci, uscito per minimum fax. È un romanzo complesso, che racchiude un mondo fatto di piccoli gesti, grandi pensieri e sentimenti atavici. Ma questa realtà (tutta inventata, a cominciare dal nome del paese, Corsignano) rischia di essere sconvolta dalle incursioni di una massa di cinghiali. Uno di questi, in particolare, Apperbohr, sta iniziando a comprendere qualcosa delle emozioni e del linguaggio umano, tanto diverso dal “cinghialese”, e per questo curioso. Tra le due specie è possibile una comunicazione? E, d’altra parte, avviene tra i propri simili…?

A pochi giorni dall’incontro al Salone di Torino e a poche settimane dalle prossime selezioni del Premio Strega, ilLibraio.it ha intervistato Meacci.

 Il romanzo è nato in molto tempo: doveva essere un racconto breve e invece… Vuole raccontarci come si è evoluto, quasi senza chiederle permesso?
“In realtà Il Cinghiale che uccise Liberty Valance è stato scritto, più o meno, tra il 2009 e il 2015. È Corsignano che mi àbita da sedici anni. Il paese. Che s’è spostato tra i romanzi scritti – e non pubblicati – dal 2000 a oggi senza mai trovare la strada giusta per fondarsi sulle pagine nel modo in cui lo vedevo (e lo volevo). Tanto che quando sette anni fa – sempre più o meno – mi sono messo a scrivere questo racconto su un cinghiale (che è sùbito apparso nelle fattezze inevitabili e riconoscibili dell’Apperbohr del romanzo); ecco: appena Corsignano è spuntata da dietro una curva, mi sono reso conto che il racconto rischiava di fare la stessa fine dei romanzi che si erano rincorsi negli anni: condannarsi a un’eterna, reiterata incompletezza. Probabilmente (questa almeno una delle motivazioni che mi sono trovato) pensare di scrivere un racconto e intanto lasciare che il Cinghiale prendesse possesso del romanzo è stato un inganno del mio es più premuroso. Di questo – sia Apperbohr sia il mio es: casomai fossero poi due cose diverse – lo (li) ringrazio in continuazione”.

Corsignano, con i suoi tanti abitanti, e un cinghiale. Potremmo considerare questi i due protagonisti della sua storia, davvero “viva”, come in un paese d’altri tempi in cui si conoscono alcuni personaggi con cui si continua a parlare e altri a cui si stringe semplicemente la mano?
“Corsignano è un universo in qualche modo specchio di altri universi. C’è una comunità di persone; circondata e attorniata da una comunità di cinghiali. Tra i cinghiali solo uno, per motivi tuttora anche a me imperscrutabili, comincia all’improvviso a comprendere la lingua degli esseri umani – ‘Gli Alti sulle Zampe’, in traduzione dal cinghialese – senza però poterla parlare. Questo confluire di un universo nell’altro, di una dimensione in altre dimensioni contigue è un po’, in sé, la spiegazione metaforica migliore di come ci si muova nel mondo che da Corsignano parte e a Corsignano si riconduce sempre. E: cosa che mi sta particolarmente a cuore, Corsignano – pur con tutti i tempi azzardati nella scrittura – è saldamente ancorata (perché Corsignano è femminile) nel suo eterno presente: risultato della somma di tutti i tempi che s’è trovata dentro, e accanto, nei secoli. Questo anche per dire che i legami, le parentele, i movimenti tra le persone – e tra i cinghiali – che s’intrecciano dando in questo modo vita ai personaggi sono tutti ugualmente fondamentali per la costruzione del romanzo. La Corsignano raccontata è un luogo dove l’ellissi può – spesso deve – avere maggior peso della digressione (e viceversa: attenzione); in un incontro alla pari che è condizionato, necessariamente, dalla sintassi che quegli stessi legami crea nel momento in cui li fa incontrare sulla pagina”.

Preferisce parlare del Cinghiale come di un romanzo corale, polifonico o nessuna delle due?
“Credo che sia entrambe le cose. Della polifonia raccoglie l’indipendenza delle voci che si sovrappongono (tra i personaggi; tra le parole e i pensieri di uno stesso personaggio) anche in dissonanza. Ma la coralità di certe percezioni condivise talvolta amplifica, proprio per mezzo del coro, la prepotenza improvvisa di una voce solista. Ecco. Considero Il Cinghiale un coro di voci indipendenti che s’intonano volta per volta; non necessariamente assecondando sempre necessità di canto simili. Nemmeno nella stessa interpretazione di un solista”.

Amore, odio, vendetta, amicizia, fedeltà, piacere, paura, divertimento: sono solo alcune delle tessere emozionali che si vivono accanto ai personaggi di Corsignano (cinghiali compresi). Ha deciso in fase progettuale di trattare un caleidoscopio tanto vasto?
“Mi sono sempre piaciuti molto, da lettore, quei romanzi che raccontando universi diffratti e assolutamente privati sono poi in grado di restituire una forma frattale del mondo in cui viviamo: delle nostre vite. (Penso alla Macondo di García Marquez, alla Contea di Yoknapatawpha di Faulkner, al Maine di King; ma anche alla Casarola del romanzo in versi di Attilio Bertolucci, la Brigadoon cinematografica di Vincente Minnelli: da sempre i miei referenti più esposti nel raccontare le fonti del romanzo; e di Corsignano). E le nostre vite, quotidianamente, sono composte della chimica cangiante di tutte le sensazioni, le emozioni forti, le esperienze improvvise o annunciate che ci fanno visita e accadono mentre viviamo. Tenere fuori tutto questo da un romanzo – qualsiasi romanzo, di là dalle forme che inventiamo per costruirlo – significa accontentarsi da sùbito di un fallimento: perché presuppone mancanza di coraggio e di onestà. Di là dal risultato artistico di un romanzo – che dipende anche etimologicamente dai lettori che lo incontreranno e dal loro giudizio nel tempo – coraggio e onestà sono veri e propri gesti preliminari irrinunciabili”.

Se l’ordine in paese è sovvertito dalla presenza di cinghiali, anche lei ha scelto di rimescolare le carte temporali, e così ogni capitolo si rifà a un giorno e mese preciso del 1999 o del 2000, in un’intermittenza non regolare. Come mai questa scelta?
“Allora. Il tempo che mi serviva era esattamente quello che poi è confluito nel romanzo. Un tempo non lineare i cui ritorni “a spirale” servono, però, a raccontare la storia di Corsignano e del Cinghiale. Poi: il 1999 era – è – l’anno in cui alcuni personaggi di un altro romanzo non finito, Jazzrusalem, si muovono per il paese (e non solo). Quando mi sono trovato a raccontare di Walter, di Fabrizio e di Tonino il tempo scandito era quello del 1999. È da lì che è arrivato di corsa Apperbohr. E infine parlare del confine tra il 1999 e il 2000 significa raccontare anche un’immensa svista, un grande inganno cronologico planetario: già in sé resoconto immediato della consistenza raffazzonata degli esseri umani. Il 2000 non è – com’è stato celebrato – il primo anno del XXI secolo; ma l’ultimo anno del millennio scorso. Una cosa che tuttora mi affascina e mi diverte. Perché nasconde un’imperfezione di fondo che mi rappresenta”.

Corsignano è inventata, come precisa sempre, ma potrebbe indicarci un paio di paesini tra Toscana e Umbria dove inerpicarci per incontrare un mondo molto simile a quello da Lei narrato?
“Ne indico tre. Budo, Torracchio e Grostolo. Anche questi inventati”.

Oltre alla ricchezza di contenuti (è davvero un mondo, con tutta la sua complessità, incoerenza e inafferrabilità), la ricerca linguistica è fortissima, nel Cinghiale. Come ha lavorato? Ha tenuto accanto a sé dizionari e altro materiale da chiosare, come un Manzoni odierno?
“La lingua è da sempre, per me, la vita di un romanzo. Perché è la forma sintattica che rende viva la materia di partenza di ‘pensieri parole opere e omissioni’ che ci spinge al tavolo da lavoro. Quello che confluisce poi nel racconto è tutta la congerie enciclopedica di momenti trascorsi o ipotizzati fino a lì. Tocca a noi fare una scelta, costante, per non perderci nel troppo vasto della vita fino a farle perdere d’importanza per eccesso di informazioni. Ma giocare sul filo, tracciare confini mobili, provare a vedere fino a dove si può arrivare con la lingua senza dimenticarsi mai delle affabulazioni che ci hanno affascinato. Questa è stata la scommessa del romanzo. E in questo la mia formazione di lettore – devastato negli anni tanto dalla passione per la Letteratura quanto dall’estrema fascinazione per la Storia della lingua – mi ha aiutato. Per essere del tutto sincero: le fonti che mi sono ritrovato intorno erano sempre al tempo stesso una risorsa e un tentativo reiterato di dimenticanza. Tra Manzoni e il Maestro Yoda di Star Wars. Quando spiega bene a Luke Skywalker che l’unico modo per diventare uno jedi è disimparare”.

Come reca la quarta di copertina, ma come si evince continuamente dal testo, è complesso dire l’amore, in cinghialese ma anche in italiano. Eppure nel Cinghiale c’è molto sentimento, sia tra gli umani, sia tra i cinghiali (che forse portano il messaggio primigenio di un’umanità ancora in nuce, pronta a scoprire giorno dopo giorno una parola e, con questa, a esplorare il mondo del non detto prima). Dunque, può chiarirci cosa ne pensa circa la comunicabilità dei sentimenti sulla pagina scritta?
“Ricordo un insegnamento di Vincenzo Cerami. Quando scrivi tu non puoi commuoverti, emozionarti. Devi riuscire a dare il senso del ricordo di quel sentimento che hai provato. Chiunque scriva sa che parte da una situazione scomoda. Comunque vada, ci sarà qualcosa di mancante, nella sua scrittura. Si tratta di imparare a valorizzare, tecnicamente (che l’avverbio non ci spaventi mai), quell’incompletezza che riguarda la nostra limitata, stordita conoscenza della vita e del mondo nonostante tutti i nostri sforzi. Ci aiuta sempre T. S. Eliot, quando ci ricorda che nessuna delle cose realmente importanti delle nostre vite si ritroverà nei nostri necrologi. Ma è per questo soltanto che siamo vissuti”.

Vorrebbe commentare per noi questo passo, dedicato all’importanza o meno del “nome” come elemento identitario? «I nomi si conoscono ma a che servono, i nomi? Se sono accidenti precipitati, da sùbito, in una memoria concava e profonda come il passato; o potenzialmente guasta e disperante come il futuro».
“Lo commento nell’unico modo in cui può farlo uno scrittore. Riscrivendolo identico: ‘I nomi si conoscono ma a che servono, i nomi? Se sono accidenti precipitati, da sùbito, in una memoria concava e profonda come il passato; o potenzialmente guasta e disperante come il futuro’. E davvero: già così non è la stessa cosa”.

Anche il cinema è presente nel romanzo, a cominciare, già dal titolo, ma anche come metalinguaggio. Il linguaggio e l’immaginario cinematografico quanto ispirano la sua scrittura?
“I film e i libri sono universi a parte che mi individuano, sempre. E sono una componente fondamentale della mia vita. Non faccio una gerarchia tra le cose che mi càpitano e l’arte che leggo e vedo. Questo spiega molto di me, probabilmente. O, più semplicemente, mi nasconde dietro uno schermo. Che è poi molto simile a quello del computer portatile che mi fa da specchio (appunto) proprio adesso”.

Vista la tanta importanza attribuita all’uso lessicale, che nel suo romanzo trova piena espressione nella scelta di termini esatti e in combinazioni assolutamente liriche, cosa ne pensa del dibattito in corso sull’impoverimento della nostra lingua?
“Riflettere sulla lingua che si usa per motivi artistici è una cosa differente dalle considerazioni sullo stato della lingua che viviamo giorno per giorno. Quindi. Cominciamo col dire che l’italiano in cui penso (pensiamo) è vivo e vitale e – visto che la lingua è minata da sconvolgimenti morfosintattici, al lìmite, mai da apporti lessicali – il confluire di parole nel nostro vocabolario (che si attestino nel tempo o no è un altro discorso) sono segno di costante arricchimento. Se invece si pensa alla lingua narrativa, o poetica: be’; in questo caso strumentalizzo una metafora giuridica. La responsabilità linguistica narrativa è personale. E ancora, però: al pensiero di molti romanzi che ho amato in questi anni, mi sento di dire con purezza di cuore che i romanzi italiani stanno vivendo un periodo magnifico. Che dura da parecchio”.

Per concludere, una curiosità: quanto di Corsignano è rimasto nel cassetto? Che cosa accadrà al tanto materiale attualmente inedito?
“Chi può dirlo? Dovrei parlarne con gli abitanti di Corsignano. Ma non sono ancora sicuro di come mi accoglieranno; non li vedo dall’uscita del romanzo. Dovrò decidermi a tornarci, prima o poi”.

 

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