Fa discutere la riflessione del Guardian, secondo cui “la stragrande maggioranza dei graphic novel di oggi sono disegnati con banalità studiata…”

Su IlLibraio.it una riflessione di Andrea Queirolo pubblicata dal portale specializzato Fumettologica e pubblicata per gentile concessione dell'autore.

 

Lo scorso 16 febbraio il Guardian ha pubblicato un articolo d’opinione del giornalista  intitolato Quando l’universo dei fumetti è diventato così banale?. Jones afferma:

«La stragrande maggioranza dei graphic novel di oggi sono disegnati con banalità studiata. Vi è una mancanza di ambizione e di verve nella loro arte visiva. Gli autori di fumetti si sono stabilizzati su uno stile di disegno che rimane entro i limiti opachi. Dove sono i veri artisti della narrativa grafica?»

A sostegno della propria tesi il giornalista porta una serie di esempi. Il primo fa riferimento a The Sculptor, l’ultimo graphic novel di Scott McCloud. Secondo Jones il disegno di McCloud è «semplicemente funzionale – che è tutto quello che sembra essere previsto da un disegnatore di fumetti». Come se fosse poco. McCloud non è certo noto per il ‘bel disegno’. Semmai è conosciuto per i suoi libri di “teoria e tecnica” del fumetto, in particolare Capire il fumetto, con il quale proprio grazie al suo tratto ‘funzionale’ riesce a costruire una spiegazione – per nulla semplice – di come ‘funziona’ il linguaggio del fumetto.

Non contento, Jones afferma inoltre che libri come Persepolis di Marjane Satrapi e Black Hole di Charles Burns sono (spoiler: stroncatura in arrivo):

«variazioni di uno stile grafico riduttivo, progettato per comunicare informazioni e indicare le emozioni semplici, senza mai correre il rischio di mostrare una percezione della realtà veramente nuova, attenta e coraggiosa».

Ecco, a questo punto posso dirlo: sono sinceramente spiazzato da queste affermazioni. Riduttivo? Really? Da un lato il giornalista cade nel cliché per il quale chi lavora nella stampa generalista farebbe meglio a non scrivere di ciò che non conosce. Dall’altro, mi sorprende che il Guardian, sempre attento alla scena del fumetto e alle sue eccellenze artistiche – fra cui Persepolis e Black Hole (qui ottimamente recensito proprio cogliendo il punto della sintesi) – abbia pubblicato un articolo del genere.

Trovo davvero poco plausibile che si possa descrivere in questo modo Persepolis, uno dei graphic novel simbolo della rivoluzione culturale, nel fumetto contemporaneo, alimentata dall’editore francese l’Association, in cui vi si notano – semmai – tutte le influenze stilistiche di una stagione irripetibile. Lo stesso discorso vale per Charles Burns, uno dei maggiori autori del fumetto contemporaneo, che in Black Hole riversa e rielabora coscientemente l’immaginario americano ‘semplice’ degli anni Cinquanta in un modo che non si era mai visto prima. E lo fa con un bianco e nero che appartiene a lui solo. Di certo queste due opere non possono essere additate come artisticamente piatte. Anzi, sono sicuramente due ottimi esempi di come il fumetto può rendere in maniera coraggiosa la realtà che ci circonda.

Ma il picco più ‘alto’ della sua analisi, Jones lo raggiunge parlando di Chris Ware:

«Il fumettista americano Chris Ware è considerato un coraggioso artista moderno. Ma come, esattamente? Con la sua banda di simil pupazzetti, isolati in scene minimaliste alla Hopper Edward, i suoi fumetti sono facili da decodificare una volta che si ‘capisce’ il suo stile. La melanconia studiata dei suoi disegni non è convincente come arte visiva, perché tutto sembra così artificioso e rigido. La sua arte è fondamentalmente una serie di tic e manierismi. Eppure Ware è il miglior autore di graphic novel del momento – quindi se si tratta di una specie di Paul Klee in saldo dovremmo essere preoccupati per il genere».

Di critiche negative a Ware ne ho lette tante, negli anni. La più banale è proprio quella che giudica negativamente la sua (supposta) freddezza artistica. Jones non tiene conto non solo della potenza consapevole di questa freddezza, ma nemmeno della ricerca stilistica di Ware, che parte dalle teste rotonde dei Peanuts di Charles Schulz per arrivare alla ricercatezza del montaggio della tavola operata da Frank King in Gasoline Alley o, ancora, da George Herriman in Krazy Kat. Capisco che per me – e per chi è in sintonia con il lavoro di Ware – sia evidente, ma non è un segreto che per Ware il fumetto è ‘finito’ negli anni Trenta e che il suo lavoro sia principalmente basato sullo studio delle opere di quel periodo. Inoltre, non si può ignorare come Ware sia stato uno dei più convinti autori a inserire i concetti della nuova cultura visual – infografica, diagrammi, visualization – nel fumetto. Per non parlare dell’uso che fa del colore. Se c’è un fumettista che ha creato uno stile nuovo e personale è proprio Ware. La sua influenza sulle nuove generazioni si vede ogni giorno sugli scaffali delle librerie, perfino nei comic book di supereroi (se avete letto Hawkeye di Fraction e Aja lo sapete).

Questa critica, inoltre, fa sorridere: proprio in questi mesi il Guardian sta serializzando sulle sue pagineThe Last Saturday, una nuova storia inedita di… Chris Ware. Certo, solitamente gli articoli di opinione sono slegati dalla politica editoriale dei giornali, ma il paradosso – vista la stroncatura così nitida – rimane notevole.

Sulla situazione del fumetto odierno Jones aggiunge che molti fumettisti di oggi sembrano «essere usciti dallo stesso corso di disegno; tutti hanno imparato che una buona arte grafica comunica informazioni». Un concetto che il giornalista vede come una pecca. Viceversa, per molti – incluso il sottoscritto – è una delle basi del fumetto. Se il tuo disegno non riesce a spiegare quello che stai mettendo su carta, se tradisce la tua narrazione, se ha valore solo in sé stesso, allora vuol dire che lo stai facendo sbagliato.

«In un fumetto, questo favorisce la storia, ma un approccio funzionale mina la vera arte. Un vero artista di fumetti è qualcuno che usa il disegno come espressione di sé anziché come una macchina narrativa. Solo l’artista che mette significato e sentimento in ogni linea può elevare l’arte del fumetto in qualcosa di bello o profondo.»

Dopo questo assunto forse dovrei andare a gettare nella spazzatura la mia collezione dei Peanuts. Mi verrebbe da dire che se a Jones piace la ‘vera arte’ farebbe meglio ad andare a visitare i musei. La vera arte dei fumetti è la narrazione, poco importa come la fai, se con 1000 tratti o con uno solo. Quanti fumetti dai disegni elaborati falliscono, rispetto ad altri apparentemente “disegnati male”?

«Il livello di vera arte nei fumetti è sicuramente Robert Crumb» asserisce il giornalista del Guardian, lanciandosi in lodi sperticate sullo stile dell’autore americano (uno che peraltro, paradosso nel paradosso, stima sia Carl Barks che Charles Burns):

«Suppongo che si possa dire che Crumb abbia uno stile, ma questo deriva da un duro e intenso lavoro di ricerca. Può disegnare molto bene, e la sua arte vive in un modo che i fumetti di oggi non fanno. Crumb non è solo un narratore, è anche un artista con un coraggio magnifico – uno che disegna il mondo come lo vede. E dimostra che la grande arte non è incompatibile con la narrazione.»

Crumb è un autore in qualche misura unico, ed effettivamente non è solo un grande fumettista, ma anche un grande illustratore. Quando si parla di lui spesso si dice che sia ‘il padre del fumetto underground’. Come tutti quelli che hanno in qualche modo inventato qualcosa, ai suoi tempi d’oro – fra gli anni Sessanta e gli Ottanta – è stato uno dei fumettisti più influenti di sempre. Oggi il suo carisma si è un po’ perso, ma questo signore di ottant’anni non smetterà mai di fare scuola fra i giovani fumettisti. Ma se in passato tutti cercavano di imitarne lo stile, forse oggi guardano di più al suo modo di raccontare.

C’è infine un passaggio il cui significato mi pare piuttosto confuso: «è anche un artista con un coraggio magnifico – uno che disegna il mondo come lo vede». Mah, messa così, si potrebbe dire che qualsiasi disegnatore rappresenta il mondo “come lo vede”. Certo, c’è chi stilisticamente è più personale e chi meno, chi più talentuoso e chi meno. Ma essendo il fumetto fatto di disegno, ed essendo il disegno qualcosa di diverso da una macchina fotografica, quel “come lo vede” dipende da chi guarda, e traccia un segno sulla carta.

Il pezzo si conclude con un invito «a ritornare sugli sketchbook», alla ricerca della vera arte e non di qualcosa di «pretenzioso e semplicistico». Ma in tutto questo Jones non tiene conto che il fumetto è sia figlio del suo tempo tanto quanto del passato. È vero che oggi la maggior parte dei graphic novel sembrano inseguire un’estetica simile, ma questo succedeva anche 50 anni fa col fumetto underground e 30 anni fa con quello alternativo – per rimanere in ambito americano.

Come direbbe Art Spiegelman «il futuro del fumetto sta nel passato». La storia si ripete, ma in ogni periodo si aggiorna. I lavori di autori come Chris Ware lo testimoniano. Peraltro, i freddi pupazzetti dell’autore di Jimmy Corrigan, sono una personalissima visione della realtà filtrata attraverso la conoscenza della storia del fumetto. E, da buon grafomane, dei suoi splendidamente crumbiani sketchbook – come ci mostra il Guardian stesso.

Ovviamente.

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