L’industria discografica è stata messa a dura prova dalla rivoluzione digitale. Eppure, dopo il ritorno dei vinili, stando agli ultimi dati si tornano a vendere anche le audiocassette. “Non è soltanto nostalgia, mania del vintage, neosnobismo luddista da passione per tutto ciò che è lo-fi. È una questione di creatività. Una questione di racconto e quindi, per ciò stesso, una questione letteraria…” – La riflessione di Fabrizio Cocco

 

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Non è soltanto nostalgia, mania del vintage, neosnobismo luddista da passione per tutto ciò che è lo-fi. È una questione di creatività. Una questione di racconto e quindi, per ciò stesso, una questione letteraria.

Ma per capirlo bisogna fare un passo indietro. Ai tempi in cui alla parola «cassetta» non si associava immediatamente la frutta, bensì la musica. Ai tempi in cui l’associazione d’uso fra una penna bic e una cassetta era evidente a chiunque avesse pochi soldi per comprare le pile nuove da mettere nel walkman.

A quei tempi – diciamo tutti gli anni Ottanta e i primi Novanta – il nastro magnetico era un ingrediente fondamentale delle giornate di moltissime persone. Più compatta e pratica dei dischi su vinile, ancora distante dalla minaccia del supporto asettico ancorché futuristico denominato compact disc, la cassetta era qualcosa di imprescindibile.

Per me, riparlarne vuol dire aprire lo scrigno dei ricordi. Di quando suonavo in un gruppo e le parti di batteria elettronica erano registrate, appunto, su cassetta, che veniva inserita in un lettore collegato direttamente al mixer audio. Dei palchi che allestivamo con televisori in bianco e nero mezzi scassati e resi post-industriali da colate di nastro magnetico srotolato.

Per me, riparlarne vuol dire pensare immediatamente a questo spot televisivo:

In cui niente meno che Peter Murphy, frontman dei Bauhaus (i cui vinili ho inseguito per tutta Europa, fino ad averne la collezione completa), si fa testimonial della capacità delle audiocassette Maxell di infrangere la barriera del suono.

Per me, ripensarci oggi vuol dire – e questo sarà ricordo comune a molti altri – ricordare pomeriggi passati a costruire la «compilation» ideale per ogni situazione. Quella per il viaggio in autobus fino al liceo. Quella da ascoltare durante le lezioni, a volume bassissimo, con microcuffiette color carne nascoste sotto i capelli, ahimé, all’epoca non solo esistenti ma anche sufficientemente lunghi. E soprattutto, la compilation da regalare. La compilation per sedurre e conquistare.

I sessanta minuti di nastro magnetico con fruscii e rumori di fondo ineliminabili erano lo spazio di un racconto. Il racconto di sé attraverso le parole e le note altrui, un racconto intriso di creatività perché necessariamente romanzato, falsato alla stregua di qualsiasi opera di finzione dalla mediazione fra l’autoespressione e l’intento seduttivo. I Cure, sì, ma anche Vasco, ché magari non mi piaceva molto, ma a lei sì.

Le audiocassette, insomma, sono contenitori di storie. Sono una questione letteraria. Su questo sarebbero d’accordo molti scrittori, fra tutti scommetterei su Nick Hornby per esempio.

E forse adesso anche a voi è venuta voglia di scavare nei cassetti per ritrovare quelle storie, no?

*L’autore, editor Longanesi, è appassionato di musica e suona il basso

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