“Forse ‘casa’ è uno di quei concetti che si sentono e non si decidono, noi possiamo solo impegnarci a essere la migliore combinazione di ciò che ci ha cresciuto, educato e salvato, e la crisi esistenziale dell’appartenenza si risolve ricordando che, nel calcolarla, la somma delle parti vale più dell’intero…”. Su ilLibraio.it la riflessione di Giada Messina Cuti, al debutto nel romanzo con “Tu vivi”, una storia sulle radici e i legami di sangue
«A cu apparteni?».
Questo chiedono gli anziani, a Mazara del Vallo, quando indagano su chi non conoscono, e significa, in sostanza: “Da che famiglia proviene?”.
La domanda funziona meglio se si rispettano due requisiti. Primo, serve che la persona sotto esame sia a portata di mano, bisogna poterla guardare bene in faccia, per verificare le somiglianze. Secondo, quella persona deve tacere: sarà una sua prozia a fare l’elenco dei legami parentali, allo scopo di certificare la provenienza. In mancanza di prozie all’orizzonte, si può ricorrere anche a una zia, purché sia stimata per la competenza sulle faccende altrui.
Se l’albero genealogico orale è noto ai presenti, questi si affollano intorno al volto e lo studiano, finché non ritrovano le premesse nei connotati e la circospezione iniziale si trasforma in amore a presa rapida.
Se, al contrario, i nomi suggeriti non rievocano nemmeno un misero aneddoto non succede niente di grave, ma bisogna prepararsi a gestire un alto grado di delusione in un gruppo di ottuagenari fino a quel momento assai speranzosi.
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Questo sofisticato sistema di passaporti familiari, purtroppo, è a corto raggio. Ci si sposta di qualche chilometro e nessuno ci conosce, figurarsi superando un’isola. L’appartenenza si scopre in crisi esistenziale: nascere in un luogo è abbastanza perché esso ci includa, o l’assenza di antenati condanna a essere forestieri? E chi fa ritorno alle radici verrà accolto o gli sarà negato di appartenere perché non ha il vissuto, a dar prova di sé, ma solo il sangue?
La crisi esistenziale della mia appartenenza è costante. Gli usi di Trieste (la città in cui sono nata) e quelli dei luoghi di famiglia sono rette parallele che non si incontrano mai, così nemmeno io so come collocarmi. Se a Mazara mi lamento di una prolungata attesa ho il timore di finire tra gli impostori: “ma dove deve andare, che ha tutta ‘sta impazienza? A chi appartiene? Deve essere del Nord”. Non capisco mai quando devo insistere e quando lasciar andare.

La stessa guida locale mi dà, almeno un paio di volte l’anno, delle dritte formidabili su posti fondamentali della mia infanzia, gli giuro che non sono una turista ma non mi ascolta, mi sa che non mi crede. “Devi assolutamente visitare le saline di Mozia”, raccomanda. Io accetto con un sospiro il suo biglietto da visita, certificato di garanzia della mia estraneità.
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“Forse ‘casa’ è uno di quei concetti che si sentono e non si decidono…”
Una frase che mi è stata detta molto di frequente a Trieste è: “Non potrei abitare al Sud perché avrei sempre paura di ricevere visite inaspettate“. Ne ho dedotto che se arrivo a casa di qualcuno senza annunciarmi sarò considerata invadente, e se pure mi aspettano sarà meglio inviare un messaggio piuttosto che suonare il campanello – quello ormai è più uno strumento per i corrieri – e finisce che scrivo “Sono sotto” sentendomi un po’ una criminale.
A Trieste l’appartenenza non si misura in famiglie, ma in dialetto e questo sì, è un sistema infallibile. Il dialetto non si può contraffare o proporre con un accento diverso, come si concede alle lingue straniere. E se anche si parla in italiano (in lingua, così si dice), questo deve avere un’inflessione locale, altrimenti, inesorabilmente, non si appartiene. Come capita giù quando si ha a che fare con un parentado poco avvincente, anche qui non succede nulla di male, ma resta un’apolidia interiore, la sotterranea idea di essere un insieme di frammenti che non sanno farsi intero, nonostante lo vogliano tantissimo.
Ma forse è proprio lì l’errore, illudersi che la volontà basti a incollare i pezzi dell’appartenenza, quando non è nemmeno garantito che la famiglia in cui nasciamo ci ami, quando spesso ci sentiamo stranieri tra i confini della geografia domestica e troviamo pace dall’altra parte del mondo. Forse “casa” è uno di quei concetti che si sentono e non si decidono, noi possiamo solo impegnarci a essere la migliore combinazione di ciò che ci ha cresciuto, educato e salvato, e la crisi esistenziale dell’appartenenza si risolve ricordando che, nel calcolarla, la somma delle parti vale più dell’intero.
L’AUTRICE – Giada Messina Cuti è al debutto nel romanzo con Tu vivi (Guanda), una storia sulle radici e i legami di sangue. Nata a Trieste da genitori siciliani, nel 2003 l’autrice ha aperto il blog umoristico I gatti senz’altro si arrangerebbero, con lo pseudonimo di Jonlooker, e attualmente si occupa di poesia e di teatro.
La protagonista di questo esordio è Dalia, che vive in un paesino siciliano affacciato sul mare, con una famiglia adottiva che adora. Il grande affetto del padre Felice e della nonna Brigida non riesce, però, a compensare la freddezza della madre, Franca, che le rimprovera la vivacità, la poca eleganza e la sua tendenza a sognare su eventi drammatici che riguardano sempre e solo gli altri.
L’equilibrio già precario si spezza quando Franca spinge la famiglia a trasferirsi a Mestre, in un contesto per la ragazza diverso e a tratti ostile. Lì dove le radici già fragili sembrano smarrirsi del tutto, segnata dall’inquietudine, proprio nel momento di toccare il fondo, arriva qualcuno a prometterle ciò che ha sempre desiderato: sognare finalmente sé stessa e cancellare tutto il male che la tormenta. Per farlo, però, dovrà tornare nella sua terra, tra le macerie di una vita che non c’è più.
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