“Siamo in un momento di depressione spirituale, culturale, civile e politica. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un balzo di speranza…”. Enzo Bianchi, fondatore ed ex priore della Comunità di Bose, in libreria con “Lessico del Giubileo” e altri due saggi, si racconta: “Tutti dicevano a mia madre malata di abortire, ma lei si è rifiutata. Se n’è andata quando avevo 8 anni. (…) Dopo l’Azione cattolica ero avviato alla carriera politica, ma mollai tutto e mio padre si arrabbiò. Fu rottura per 13 anni”. E prosegue: “Dopo l’addio a Bose ho costruito la Casa della Madia, ma non riesco ancora a perdonare chi mi ha tradito. Il Papa mi disse: ‘Stai in croce e capirai'”. Nell’intervista spazio anche per il difficile presente: “La guerra in Ucraina ha distrutto il mio sogno ecumenico. Con il patriarca Kirill eravamo amici, ora non lo sento più”. Per le letture che accompagnano le sue giornate e per l’orto: “Mi ha accompagnato per tutta la mia vita, è stato il mio amico più fedele”
Enzo Bianchi è monaco laico, teologo, fondatore della Comunità monastica di Bose, dalla quale è stato allontanato in maniera traumatica nel 2017.
Per mezzo secolo è stato il punto di riferimento del cattolicesimo post-conciliare europeo, ponte di dialogo con le altre confessioni cristiane, a cominciare da quella ortodossa.
Ora vive alla Casa della Madia, nelle campagne tra Albiano e Ivrea, il luogo dov’è nata la comunità di chi ha voluto seguirlo nel suo involontario esilio (“ma non siamo in competizione o contrapposizione con Bose”, precisa subito all’inizio della nostra intervista).
L’energia che convoglia nella parola è immutata. Come immutata è la scrittura: tagliente, diretta e forte. Ha da poco pubblicato tre libri: Lessico del Giubileo (Edizioni Dehoniane), una guida spirituale per riflettere sul senso del prossimo Anno Santo che ha per tema la speranza; Rinascere (San Paolo) sul futuro del cristianesimo e la riscoperta della fede in questo tempo inquieto e Fraternità (Einaudi) con la prefazione di Papa Francesco.
Enzo, cos’è la speranza?
“L’energia che abita nel cuore dell’uomo, gli fa compiere un balzo in avanti per affrontare il futuro e il mondo senza paura e lo rende diverso dagli animali. Homo viator, spe erectus, dice un’espressione latina. È la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro”.
Molti affermano che l’uomo di oggi non riesce più a sperare.
“Siamo in un momento di depressione spirituale, culturale, civile e politica. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un balzo di speranza, ma la speranza non dobbiamo invocarla o aspettarla passivamente, bensì esercitarla tutti insieme. Solo sperando gli uni per gli altri non si avrà paura di quello che accadrà, della vita, del futuro del mondo”.
Uno degli atti principali dell’Anno Santo, come scrive in Lessico del Giubileo, è il pellegrinaggio.
“La mia generazione ha riscoperto il camminare dopo decenni in cui era incompreso e non era più considerato un gesto significativo. È un movimento tipico dell’uomo, ma il cammino è sempre più importante della meta. Nella tradizione cristiana il pellegrinaggio è sempre stato considerato un modo di stare al mondo, l’ansia di chi attende la venuta del Signore e il regno di Dio e quindi non sta fermo ma va nei luoghi dove ci sono tracce di santità, dalla tomba degli apostoli Pietro e Paolo, a Roma, alla terra dove ha vissuto Gesù. La vita è un pellegrinaggio, come quello di Abramo al quale Dio ordina perentorio: ‘Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò’. Fare un pellegrinaggio significa rinunciare a stare fermi, muoversi verso terre sconosciute, luoghi che sono stranieri senza alcuna paura”.
E varcare la Porta Santa, altro gesto forte del pellegrinaggio giubilare?
“Significa reimparare il senso della soglia, il gesto dell’entrare. Noi ormai lo facciamo senza rendercene conto. E invece dovremmo pensare che c’è sempre una soglia, che è necessario stare vicino alla porta in attesa che ci venga aperto per poter entrare. All’interno del pellegrinaggio giubilare questo gesto diventa una maniera di passare da una condizione in cui si è peccatori a una in cui si è perdonati e si comincia una vita nuova, da una condizione in cui si è lontani dal Signore a una in cui si entra nell’intimità della sua casa”.
Riavvolgiamo il nastro. Che infanzia è stata la sua?
“Molto dolorosa. Mia madre Angela quando era incinta di me era già molto malata. Aveva una valvola mitralica al cuore che le procurava violentissime crisi d’asma. Molti le dicevano di abortire, ma lei mi ha voluto contro tutto e contro tutti. Durante la gravidanza era sempre a letto. Da piccolo sapevo che sarebbe morta dopo pochi anni e infatti se n’è andata quando io ne avevo 8, nel ’51”.
E suo padre?
“Eravamo una famiglia poverissima. Papà si arrangiava come poteva, faceva lo stagnino e, occasionalmente, anche il barbiere, pur di sbarcare il lunario. Ero figlio unico. La mia era una vita precaria, ai margini, in un villaggio di campagna del Monferrato. Poi, grazie alla Provvidenza, sono entrate nella mia vita due donne, la maestra e la postina del paese, che mi hanno accompagnato nel mio percorso di crescita, supportato economicamente e fatto studiare. Mi hanno insegnato il latino, fatto leggere Tolstoj, Dostoevskij, la Bibbia. Sono testimone di come il Signore guardi con benevolenza a coloro che la vita lascia orfani, poveri e in una condizione di grande dolore”.
Quando nasce la sua grande passione per l’orto?
“A 11 anni. Mio padre mi chiese quale regalo desiderassi per aver passato l’esame di ammissione alle scuole medie. Gli chiesi un orto. E lui affittò un piccolo pezzo di terra vicino casa. L’orto mi ha accompagnato per tutta la mia vita, è stato il mio amico più fedele. Ancora oggi ne ho uno anche se la vecchiaia e i problemi di salute non mi consentono di coltivarlo da solo”.
La sua militanza cattolica quando comincia?
“Alle superiori quando sono entrato nell’Azione Cattolica. Avevo un professore straordinario, Giovanni Boano, che poi è diventato senatore ed eurodeputato della Dc, che ci insegnava il russo perché potessimo leggere Dostoevskij in lingua originale”.
Perché poi scelse Economia all’Università?
“Volevo fare carriera e i dirigenti dell’Azione Cattolica mi dicevano che c’erano già troppi filosofi e mancavano gli economisti. E così sono arrivato a Torino e mi sono iscritto a Economia. In quel periodo ho iniziato a frequentare la Fuci, la Federazione degli universitari cattolici”.
A un tratto, a metà degli anni Sessanta, molla tutto e va in Francia.
“Scrissi una lettera all’Abbé Pierre, lui mi rispose subito dicendomi che potevo raggiungerlo alla periferia di Rouen. Conservo ancora quella lettera. Sono andato di corsa e per alcuni mesi ho vissuto con gli ‘scarti’ dei quali lui si prendeva cura: alcolizzati, ex detenuti, straccioni, furfanti. Ho indossato come loro i vestiti raccolti, mangiato le stesse cose, dormito negli stessi giacigli. Lì ho conosciuto un altro cristianesimo, radicalmente diverso dal mio di cattolico militante che doveva dare l’esempio, convertire, fare apostolato”.
Cosa le ha insegnato quell’esperienza?
“Il senso della carità intelligente, di prossimità, non quella militante e parolaia a cui ero abituato in Italia. Quei reietti, veri e propri rifiuti della società, senza mai pronunciare il nome di Gesù, mi hanno cambiato la vita, insegnandomi a vivere ogni giorno sapendo il perché”.
Quando nasce Bose?
“Nel 1965 capitai per caso in una cascina tra le campagne di Biella. C’era una piccola chiesa con intorno delle case diroccate. Decisi di trasferirmi lì per fare vita monastica. Misi una campana che suonavo per me tre volte al giorno: mattina, mezzogiorno e sera. Coltivavo l’orto. Non c’era energia elettrica e mettevo il burro nel pozzo, il posto più fresco. Per guadagnare qualche soldo e mettere a posto la cascina traducevo dal francese articoli di teologia”.
Era da solo?
“Per i primi tre anni sì, poi nel ’68 cominciarono ad arrivare alcune persone spinte dalla curiosità perché volevano capire che cosa facessi e nacque la Comunità di Bose. Nel giro di qualche anno c’erano quasi cento persone”.
Qual era la “regola”?
“Mi sono ispirato al monachesimo basiliano con tre ideali precisi: dovevano essere persone semplici, laiche, non religiose o preti, semplicemente battezzate come tutti gli altri cristiani. Dovevano lavorare e non dipendere dalle offerte o dai finanziamenti e dunque liberi dalla Chiesa. Terzo aspetto fondamentale: dare ospitalità a chi lo chiedeva, abbiamo accolto circa quindicimila persone all’anno, molti dei quali non credenti”.
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Suo padre come la prese?
“Malissimo. Sentenziò che in ogni famiglia c’è un deficiente, e che nella sua ero io. Fu rottura”.
Cosa non gli andava giù?
“Nel frattempo era diventato titolare di un’impresa di impianti elettrici e idraulici e non accettava che suo figlio vivesse in una cascina senza energia elettrica e senza acqua corrente. Siamo andati avanti così per tredici anni. E poi non si capacitava che avessi mollato tutto per fare vita monastica”.
Tutto cosa?
“Avevo la strada spianata per fare carriera politica nella Dc. Diversi esponenti del partito, tra cui Boano, vennero a supplicarmi perché mi candidassi in un collegio blindato in provincia di Asti. Altri mi offrirono un seggio al Parlamento europeo. Dissi di no a tutti e andai avanti per la mia strada”.
Perché non si è mai fatto prete?
“Mai sentita la vocazione. Quando il cardinale Pellegrino (arcivescovo di Torino dal 1965 al ’77, ndr) voleva ordinarmi gli dissi di no. San Basilio non era prete, Francesco d’Assisi neanche. I monaci devono essere semplici laici, come scrisse Pacomio, un monaco egizio poco conosciuto in Occidente, al Patriarca di Alessandria d’Egitto: ‘Noi siamo dei semplici cristiani battezzati e nient’altro. Non vogliamo nessun riconoscimento, non vogliamo neanche essere religiosi’. Finché ci sono stato io come priore la Comunità di Bose non è stata neanche una comunità di religiosi, ma di semplici laici battezzati”.
Avrebbe voluto un riconoscimento ufficiale della Chiesa?
“No. Alcuni spingevano per questo, ma Papa Francesco mi disse: ‘Vai avanti su questa strada’. Anche il cardinale argentino Pironio mi incoraggiò: ‘Resisti Enzo, la tua intuizione è importante. Siete dei laici, restate tali. Tieni viva questa vocazione perché è ciò che contraddistingue Bose’…”.
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Nel 2017, dopo più di cinquant’anni, l’addio forzato alla Comunità. Oggi come lo descrive?
“Un momento di grande dolore, perché mi sono sentito tradito da alcuni confratelli. E perché non ho mai avuto spiegazioni”.
Ha perdonato i suoi ex confratelli?
“Sarebbe facile dire di sì, ma da parte mia sarebbe un atto di esibizionismo e di vanità. Ho cercato di fare come Gesù sulla croce dicendo: ‘Padre, perdonali, perché non hanno saputo quello che hanno fatto’. Oltre, almeno per ora, non posso andare”.
Ci riuscirà un giorno?
“Il Signore conosce il mio cuore. Sarà Lui a portarlo a una maturazione, poi si vedrà”.
La ferita brucia ancora adesso.
“È stata lenita dall’affetto dei miei confratelli e dalle tante persone che mi hanno scritto e sono venute a trovarmi. E dalle parole di Papa Francesco che, in una lettera piena d’amore, mi ha scritto: ‘Stai in croce e verrà l’ora che capirai’, aggiungendo che lui si sentiva mio figlio spirituale. Gli ho risposto che non sono degno, io figlio di uno stagnino, di essere definito suo padre spirituale”.
Giovanni Paolo II.
“Aveva un temperamento militante, forgiato dall’esperienza sotto il comunismo polacco, molto diverso dal mio. Era sicuramente un grande santo, che avrebbe voluto l’unità piena con gli ortodossi. Lo incontrai nel 2004 quando mi chiese di restituire al Patriarca di Mosca Alessio II l’icona della Madonna di Kazan che era stata rubata ai russi. Mi disse: ‘Dica agli ortodossi che gli voglio bene’. Alla cerimonia nella cattedrale della Dormizione del Cremlino c’era anche Vladimir Putin”.
Come vive il conflitto tra Russia e Ucraina?
“Malissimo. Ho molti amici in entrambi i Paesi. Vederli impegnati in un conflitto dove si benedicono le armi, ci si augura la disfatta del nemico e si chiede a Dio la vittoria è un motivo che mette profondamente in crisi la mia fede cristiana. Gli ortodossi ucraini mi raccontano che c’è una vera e propria persecuzione nei loro confronti perché vogliono restare fedeli al Patriarcato di Mosca. Vengono bruciate loro le chiese, date alle fiamme le auto dei sacerdoti, picchiati i monaci. La chiesa ortodossa ucraina è da mille anni in comunione con quella di Mosca, è come se chiedessero a noi cattolici di smettere di essere fedeli al Papa. Questo è uno dei frutti avvelenati della guerra”.
Ha più sentito il patriarca Kirill?
“Lo conosco, siamo amici, l’ho ospitato diverse volte in Italia e lui a Mosca, ma da quando è iniziata la guerra non ci siamo più sentiti. Oggi, ammetto, non è facile. Lui sa benissimo che siamo fortemente critici verso il suo atteggiamento di benedire la guerra scatenata da Putin. Sono posizioni anticristiane. Speriamo si ravveda”.
Nel Sessantotto, da Bose, insieme ai suoi amici, voleva cambiare il mondo. Ce l’ha fatta?
“Ho partecipato al movimento, ne ho condiviso le speranze, nella Chiesa si respirava il fervore del post-Concilio e sono stati fatti molti tentativi per cambiarla, ma senza grande successo, anche se ci sono state grandi occasioni: Papa Giovanni, il Concilio appunto, oggi Papa Francesco. Allora volevamo cambiare il mondo e la Chiesa, adesso che sono vecchio la mia grande lotta è contro l’eventualità che il mondo e la Chiesa cambino me”.
Cosa fa nella Casa della Madia?
“Vivo con altri fratelli che vogliono continuare a condurre una quotidianità comune, ma non è una nuova Bose. È un luogo di ospitalità, di scambio, di incontro e di preghiera. In questi giorni sto predicando gli esercizi spirituali a un gruppo di sacerdoti sulla figura del profeta Geremia. Organizziamo degli itinerari di grammatica umana sul cibo, il pane, l’olio, il vino, perché il cristianesimo è amore per la terra, ha una concretezza carnale”.
Chi bussa alla sua porta?
“Pellegrini, poveri, chi ha bisogno di una parola di conforto, chi di silenzio, chi vuole fare gli esercizi spirituali da solo o in compagnia. Siamo a disposizione di tutti”.
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Quali libri l’accompagnano?
“Oltre alla Bibbia e ai Padri della Chiesa, leggo sempre quelli di Giancarlo Gaeta, storico del cristianesimo e mio caro amico, perché offre un’immagine della fede che apprezzo. Non possono mancare i saggi di Umberto Galimberti e Massimo Cacciari, che mi aiutano a capire e decifrare la realtà. Un autore che mi ispira molto è il monaco francese Cassingena-Trevedy, che adesso fa l’eremita e scrive dei libri straordinari, veri e propri diari spirituali. Sono contento quando, nel chiuso della mia cella, soprattutto di notte, riesco a leggere”.
Dov’è Dio oggi?
“Ovunque c’è un uomo, giusto o ingiusto, santo o peccatore, lì c’è Dio. Trovo sempre sorprendente trovare Dio sotto le spoglie di chi sembrerebbe incapace di narrarlo per i suoi peccati, per la sua condizione disgraziata, per i suoi limiti. Invece, è proprio in queste persone che Dio appare come colui che ci salva e tocca le nostre bruttezze per trasfigurarle. Ma Dio è una parola molto ambigua, insufficiente”.
In che senso?
“Tutti parlano di Dio, ma poi ognuno ne ha una propria immagine che spesso ne contraddice un’altra. Non è vero che tutte le vie conducono a Dio, anzi ce ne sono alcune che conducono a idoli falsi e pericolosi. Il mio non è il Dio di tutti, ma è il Dio di Gesù Cristo. Guardando a Cristo conosco Dio e tutto ciò che Cristo non mi ha narrato di lui io non lo credo”.
Ha da poco superato gli 80 anni. Cosa si aspetta ancora dalla vita?
“Niente. Solo, di non soffrire troppo e morire in pace. E, da peccatore, di essere abbracciato dalla misericordia di Dio”.
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