“Non esisto come madre, esisto solo come figlia. E il mio universo di figlia è peraltro mutilato dal lutto, ma questa è un’altra storia…”. Eleonora Daniel, all’esordio con “La polvere che respiri era una casa”, si racconta su ilLibraio.it: “Un libro è un po’ come un bambino perché per un certo periodo resta in formazione (gestazione, cova), e poi non più…” – La riflessione
Una premessa: io non esisto come madre, esisto solo come figlia – e il mio universo di figlia è peraltro mutilato dal lutto, ma questa è un’altra storia.
Non so dire se sarò madre. Mi piace pensare di essere ancora giovane anche solo per pormi la questione; ignoro il fatto che alla mia età non sarebbe così strano avere figli (ma: potersi permettere un tetto, la crisi climatica, l’egoistica spinta alla solitudine, trovare una stabilità economica e relazionale, costruire me prima di dedicarmi a un’altra persona, eccetera).
Non solo. Mi rendo conto, ora che ci rifletto, di aver passato la mia età adulta a sentirmi bambina (figlia). Suppongo sia una sensazione condivisa da buona parte delle mie coetanee e dei miei coetanei – noi Peter Pan forzati: non vittime di un revival adolescenziale alla soglia dei quarant’anni, ma costretti a far convivere responsabilità e infantilismi nelle nostre case condivise, a conoscere l’adultità solo come gioco precario. Siamo undicenni eterni che scalpitano per essere ammessi al tavolo dei grandi.
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Quanto a me, sono stata e tuttora sono più piccola rispetto a buona parte dei miei amici, dei miei compagni di studio, dei colleghi che ho avuto in quasi tutti i lavori che ho svolto, e mi sono abituata al fatto che la mia età percepita rosicchi almeno tre anni a quella anagrafica. Sembri più piccola! (ma ancora, ma perché), rispondo: l’Eleonora del futuro sarà contenta di sentirlo. Penso: arriverà un momento in cui finalmente mi sarà concesso di crescere. Forse il momento è questo. Assumersi la responsabilità (paternità) delle proprie parole è un buon punto di partenza per diventare grandi. Credo.
Comunque sia, La polvere che respiri era una casa non ha la pretesa di essere una storia sulla genitorialità. Non perché io parta dall’avvilente assunto che si possa scrivere solo ed esclusivamente di ciò che si conosce, ma perché lo direi piuttosto un libro sulla capacità di essere generativi, nella misura in cui qualsiasi costruzione lo è: un edificio, una ricetta, i lego, una fiaba, un amore.
La polvere che respiri era una casa è una storia sul concepire (!), persino il vuoto, persino i silenzi, e, per assurdo, sull’accogliere l’inconcepibilità di determinati gesti. In tutto questo, avere un figlio è solo una metafora, e dunque una scusa.
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È con questa scusa che posso continuare a parlarne. A un certo punto del romanzo, uno dei due protagonisti dice all’altra che nelle sue prime fasi di vita un libro è un po’ come un bambino, perché ancora in formazione.
Sposterei più avanti la similitudine: un libro è un po’ come un bambino perché per un certo periodo resta in formazione (gestazione, cova), e poi non più. Poi: si allontana, entra nelle case degli altri, crea un mondo a parte estraneo a chi lo ha creato.
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Ne scrivo con la stessa confusione con cui mia madre tende a spiegare il lavoro che faccio alle sue amiche,[1] costretta a rassegnarmi al fatto che racconterà (il libro, ma anche mia madre) una storia diversa dalla mia.
Forse lo scarto tra i legami è questo: accettare il fatto che la stessa storia in una bocca diversa diventerà un’altra storia. La polvere che respiri era una casa smetterà di raccontare quello che volevo dire nel momento in cui il primo lettore lo aprirà – in parte è già stato così. Dirà, spero, tanto altro, e non vedo l’ora di scoprirlo. Almeno fino a oggi, è l’unico modo che conosco di non essere più figlia.
[1] Ops. Ciao mamma!
L’AUTRICE – Nata a Milano nel 1995, Eleonora Daniel vive a Roma, dove si è specializzata in editoria. Attualmente è caporedattrice e editor di Accento edizioni. Dopo che alcuni suoi racconti e articoli sono apparsi su diverse riviste, ora arriva in libreria per Bollati Boringhieri il suo primo libro, La polvere che respiri era una casa, definito un “romanzo che parla la lingua universale dei sentimenti”.
Un debutto che narra la storia di una relazione come tante: due ragazzi che si innamorano, si trasferiscono, si amano di un amore umano, domestico e imperfetto, sognano, si contraddicono, progettano una casa e un futuro. Un giorno, accanto a una tavolata di bambini al ristorante, avvertono una sensazione nuova: vogliono un figlio. Ma le cose non vanno come vorrebbero e le loro speranze si rivelano più difficili da affrontare del previsto..
Eleonora Daniel propone una narrazione che spazia tra diversi stili e voci narranti, e sviscera i due punti di vista di una coppia, decostruendo ogni banalità e facile romanticismo.
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Fotografia header: Elenora Daniel, foto di Lisa Herpin